La distopia coloniale: Gaza cancellata dalla mappa
«Gaza deve essere cancellata affinché i coloni possano vedere il mare. Non rimangano case né arabi». Sono le parole di Daniela Weiss, leader del movimento dei coloni israeliani, accolte da un frastuono di applausi a Kiryat Arba, nel cuore della Cisgiordania occupata. La stessa prospettiva è stata rilanciata da Donald Trump attraverso un video generato con intelligenza artificiale, che trasforma Gaza in un resort di lusso con spiagge bianche e grattacieli scintillanti. «Trump Gaza» è il nome dato a questa distopia coloniale, che non solo cancella le macerie della guerra, ma anche l’esistenza stessa del popolo palestinese. Come ha osservato lo studioso Achille Mbembe, ogni progetto coloniale si fonda su una politica dell’oblio: la ricostruzione promessa non è mai semplice riparazione, ma un atto di sostituzione che elimina le tracce dei vinti.
La retorica dei “due Stati” e l’impossibilità del compromesso
Mentre Gaza resta sepolta sotto le rovine e i leader politici fantasticano di ville vista mare, la diplomazia internazionale torna a evocare lo Stato di Palestina. «Due popoli, due Stati»: da Emmanuel Macron a Ursula von der Leyen, lo slogan viene ripetuto come un atto di fede. Ma si tratta di un riconoscimento privo di confini, pronunciato mentre sul terreno continua l’annessione strisciante della Cisgiordania, con nuove barriere tra enclave già frammentate e con l’espansione di insediamenti lungo un muro di oltre 700 chilometri. «Due popoli, due Stati» ha il retrogusto amaro di una formula di facile consumo, utile a cerimonie e salamelecchi, più che a una reale prospettiva di giustizia.
Nel 1982 Meron Benvenisti, ex vicesindaco di Gerusalemme, aveva fissato a 100.000 coloni la soglia oltre la quale ogni compromesso territoriale sarebbe diventato impraticabile. Quella soglia è stata ampiamente superata e nuove linee rosse sono state di volta in volta ridefinite e infrante. Alla fine del 2024, secondo Peace Now, ripreso anche da B’Tselem e dalle Nazioni Unite, si stimano circa 737.000 coloni israeliani insediati tra la Cisgiordania e Gerusalemme Est.
Oltre Oslo: nuove visioni di convivenza e decolonizzazione
Già negli anni Venti del Novecento, di fronte all’antisemitismo in Europa e ai rischi di un progetto esclusivamente nazionalista in Palestina, il movimento Brit Shalom, che riuniva intellettuali ebrei tra cui Gershom Scholem e Martin Buber, avanzò l’idea di uno Stato binazionale fondato sulla giustizia e sull’uguaglianza tra arabi ed ebrei, presto soffocata dal prevalere del sionismo revisionista. L’intellettuale palestinese Edward Said riprese ed espanse quel filo interrotto. In The Question of Palestine (1979) denunciava l’impossibilità di una coesistenza fondata su «nazionalismi mutuamente esclusivi» e indicava come unica via un Medio Oriente multietnico, basato su diritti laici e universali, anziché su appartenenze religiose o minoritarie. In Peace and Its Discontents (1996) criticò Oslo come un accordo che «istituzionalizza la subordinazione palestinese sotto la maschera della sovranità» e osservò con rammarico come «i commentatori, con pochissime eccezioni, non compresero la portata dei cambiamenti insiti nella proposta di un unico Stato laico per arabi ed ebrei».
Oggi, dall’interno dell’assedio, prendono forma nuove iniziative politiche che raccolgono quell’eredità. Tra queste, il progetto One Democratic State, fondato da giovani palestinesi di Gaza insieme a siriani, libanesi ed ebrei israeliani, sostiene la necessità di un processo di decolonizzazione che non lasci nessuno ai margini. Come spiega il co-fondatore Mohammed Zraiy: «Il nostro futuro deve includere tutti, anche gli ebrei israeliani, accolti come cittadini uguali, dopo lo smantellamento della logica identitaria stabilita in Israele e per la quale i palestinesi continuano a pagarne il prezzo. La nostra visione è che il processo di decolonizzazione non sostituisca un sistema di apartheid con un’altra forma di dominio, ma apra invece uno spazio politico comune».
Dal cuore del campo profughi di Deir al-Balah, di cui non resta nulla, raso al suolo dai bombardamenti israeliani, Mohammed Zraiy ha creato un movimento che concepisce la liberazione «non semplicemente come una reazione all’oppressione e alla repressione, ma come un processo completo che abbraccia la vita politica, sociale ed economica, tanto della società quanto dell’individuo». La liberazione, prosegue Zraiy, «non significa soltanto emanciparsi dal colonialismo, ma anche da tutte le strutture reazionarie che affliggono le nostre società: il settarismo, la politica dell’identità, il patriarcato, il nazionalismo sciovinista e l’omofobia».
In Israele si muovono in direzioni affini diverse realtà: da quelle storiche come Combatants for Peace, fondata sotto i colpi della Seconda Intifada da ex combattenti palestinesi e soldati israeliani che hanno scelto la via della nonviolenza per costruire un futuro decoloniale nella regione, fino a The Peace Partnership, una coalizione nata dopo il 7 ottobre 2023 che riunisce sessanta organizzazioni israeliane e palestinesi impegnate «in una soluzione politica sostenibile, nella fine della persecuzione razziale e politica e nella piena uguaglianza civile e nazionale per tutti». In prima linea, e soprattutto sul piano dell’azione diretta, operano invece movimenti come Mesarvot, Free Jerusalem, Radical Bloc, Ta’ayush e gli Anarchists Against the Wall, che si oppongono al sistema militare israeliano rifiutando la leva obbligatoria, interponendo i propri corpi a difesa dei palestinesi sotto attacco e proteggendo le loro case minacciate di demolizione nella Cisgiordania occupata.
Lo fanno nella convinzione, come afferma l’attivista israeliana Ella Keidar Greenberg, recentemente rilasciata dal carcere militare di Ofer, dove si trovava per aver rifiutato di imbracciare le armi, che «una storia di profonda solidarietà condivisa e di reciproco riconoscimento possa offrire un’alternativa reale, al di là delle finzioni diplomatiche nate da Oslo, che hanno creato un falso senso di parità e relegato la questione palestinese a un mero dibattito pubblico». E aggiunge: «Non penso che esista un modo per vivere su questa terra senza avere paura. Siamo cresciuti dentro un trauma collettivo, figli e nipoti di esuli e sopravvissuti. Ma quello stesso trauma lo Stato lo utilizza per creare un nemico permanente: i palestinesi. Resistervi significa opporsi a un sistema che ti insegna chi odiare e aprire la strada verso un orizzonte di giustizia riparativa».
Non si tratta soltanto di scegliere tra due Stati o uno Stato, ma di pensare forme politiche nuove, capaci di superare quelle «filosofie assolutiste e di importazione come il sionismo e il panarabismo», come avvertiva Edward Said, e di oltrepassare «l’illusione di un’unità geopolitica fittizia». Immaginare un futuro diverso dal presente è un atto radicale. Lo è tanto più in un contesto che numerose organizzazioni internazionali, le Nazioni Unite e storici israeliani della Shoah, tra cui Amos Goldberg e Omer Bartov, hanno definito essere un genocidio.
Il mondo dopo Gaza vive già nelle relazioni che sfidano l’assedio e nella creatività di chi resiste, nonostante le perdite e il trauma collettivo che trapassa le generazioni. È in quella capacità di restare presenti e di immaginare un domani libero dalla violenza genocidaria e dalla mitologia escludente del nazionalismo, con i suoi dispositivi di dominio, che si apre la possibilità di una vita piena per tutti gli abitanti, dal fiume Giordano al mare Mediterraneo.
