La barriera invisibile della povertà
Di Rahel Sereke
Secondo una più recente e verosimile stima del Centro Studi e Ricerche IDOS sono 1.420.000 le persone che potrebbero beneficiare di un’eventuale riforma, tra cui 284 mila minori. La stima è molto inferiore rispetto a quella che la stessa Campagna per il Sì al Referendum Cittadinanza promuove come platea di persone potenzialmente beneficiarie. Perché? Poter dimostrare come unico requisito quello della residenza legale non comporta nessun tipo di automatismo, perché diversamente da chi proclama “la cittadinanza facile” associandola al Referendum, esistono altri requisiti da dover soddisfare per presentare la richiesta: la conoscenza della lingua come possibile fattore di integrazione sociale, il regolare pagamento delle tasse, la mancanza di condanne civili o penali e un reddito continuativo ed elevato. A questi requisiti si aggiungono poi il costo della richiesta, che l’ultima Legge di Bilancio ha dato facoltà ai Comuni di aumentare fino a 600,00€, e la discrezionalità dello Stato che, per comunicare l’esito della richiesta, può far attendere da due anni a 42 mesi (tre anni e sei mesi) e l’esito può essere negativo. Abbiamo dovuto assistere alle dichiarazioni della Seconda Carica dello Stato in favore dell’astensionismo, sebbene il voto venga riconosciuto sia come diritto, che come dovere dall’ordinamento italiano, a dimostrazione del fatto che è ancora lontano il tempo in cui i principi della Costituzione italiana siano diritto vivo e soprattutto vengano valorizzati gli strumenti di partecipazione diretta alle scelte dello Stato.

Povertà strutturale e povertà di prospettive
La popolazione che vive oggi in Italia con lo status di cittadinə non comunitariə è soggetta ad un notevole carico di discriminazioni che l’involuzione del cosiddetto “Diritto dello straniero”, dagli anni ’90 in poi, ha prima cristallizzato e poi progressivamente aumentato, depotenziando prima servizi e progetti che favorivano la coesione sociale e, poi, costruendo intorno ad un status giuridico, condizioni criminanogene e marginalizzanti, diventate oggi un indicatore sociale. Le persone con background migratorio appartengono indicativamente, nella maggioranza dei casi, a nuclei familiari poveri, svolgono lavori non altamente qualificati, in Italia hanno percorsi di studio e/o di lavoro discontinui, spesso svolgono mansioni meno qualificate dei titoli di studio in loro possesso. A questa povertà di prospettive istituzionalmente determinata si accompagna una marcata mancanza di approfondimento culturale sul tema delle migrazioni e delle trasformazioni sociali in corso a livello nazionale e globale, e questo incide fortemente sul dibattito intorno al tema della cittadinanza, viziato da pregiudizi e stereotipi, incapace di interrogare il futuro di questo paese, né i termini di giustizia sociale, né rispetto alla tenuta dell’assetto democratico.
Milano specchio di esclusione democratica
Milano, la città da cui scrivo, offre un osservatorio privilegiato in questo senso. I dati raccontano infatti che, dopo Roma, Milano è la seconda provincia in Italia per presenza di cittadine e cittadini stranierə, comunitarə e non, vi risiede il 9% della popolazione straniera complessiva, che, all’interno dei confini comunali, rappresenta il 21% del totale della popolazione residente, una popolazione quasi interamente esclusa dal diritto di voto nella scelta del candidato Sindaco, esclusa dalla possibilità di essere eletta, di concorrere a ruoli pubblici, ha un differente accesso alle informazioni e ai diritti fondamentali. Il freno istituzionale al riconoscimento della piena titolarità dei diritti di cittadinanza, intesi come possibilità di partecipare alla vita pubblica nello stesso modo e di esserne consideratə parte integrante, rappresenta di fatto la legittimazione di forme di esclusione legate alla razza, che peraltro persistono anche dopo l’ottenimento della cittadinanza italiana e sono un pesante lascito dell’eredità coloniale italiana.

Attivare il tessuto sociale
La seconda parte dell’articolo 3 della Costituzione che proclama l’uguaglianza tra cittadinə nei confronti della legge – [..] La Repubblica ha il compito di rimuovere gli ostacoli che limitano la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, consentendo loro il pieno sviluppo e la partecipazione all’organizzazione del Paese – è completamente disatteso. Tali considerazioni, credo, dovrebbero indurre tuttə coloro che possono esercitare il diritto-dovere del voto a partecipare esprimendo un sì al referendum cittadinanza, così come a quelli sul lavoro, che insieme rappresentano la ricomposizione di una battaglia per la giustizia, in cui diritti sociali e diritti civili tornano a definire un’idea di sicurezza legata alla tutela e alla salvaguardia dell’integrità della persona come soggetto titolare di pieni diritti nei confronti di altri soggetti, come lo Stato e le imprese, che esercitano un potere asimmetrico. Dopo l’8 e il 9 giugno dovremo continuare la battaglia per il progresso sociale e civile di questo Paese, che non sembra contemplare il desiderio di partecipare ed essere parte attiva del tessuto sociale come uno dei principali criteri di reciproco riconoscimento per costruire una società più giusta e coesa.
Riformare la cittadinanza, ripensare la comunità politica
Di Anna Brambilla
Nel libro “Io sono confine”, Shahram Khosravi, riprendendo le riflessioni di Hannah Arendt e di Liisa Malkki, problematizza il sistema dei diritti umani sottolineandone la dipendenza dallo Stato-nazione. «Poiché i diritti umani si basano su quelli civili, cioè sui diritti riconosciuti al cittadino, i primi si possono conseguire solo attraverso lo Stato-nazione. (…) la territorializzazione dei diritti umani entro il sistema dello Stato-nazione li riduce a diritti del cittadino». Lo Stato-nazione condiziona dunque ogni gruppo sula terra, definisce la comunità politica, attraverso un’azione continua di inclusione ed esclusione. Disegna e impone molteplici confini. Ragionare sulla cittadinanza significa dunque ragionare sui diritti umani ma anche sul tipo di comunità politica e umana compresa o esclusa dai confini dello Stato nazione. Per questo, o anche per questo, il referendum sulla cittadinanza rappresenta un’importante occasione. Il referendum non solo consente di intervenire su un testo di legge ormai antiquato ma offre a una parte della comunità la possibilità di esprimersi a favore dell’inclusione e di un’allargamento della comunità stessa. Indipendentemente dal risultato, non ci dovremmo fermare perché, anche se passasse il sì, la cittadinanza per residenza rimarrebbe sempre e comunque una concessione, basata su presupposti non accettabili non perché oggettivamente scorretti ma perché iniqui.

I limiti imposti..
Chiedere di dimostrare precisi limiti reddituali per poter diventare cittadino o cittadina, per poter essere ammessi nella comunità politica che vanta dei diritti, non costituisce un problema di per sé. Lo diventa quando alcuni sono messi nella condizione di poter ottenere quel reddito e altri no. Possedere un livello adeguato di conoscenza della lingua italiana non solo non rappresenta un problema ma costituisce un punto di forza. Tuttavia, esigere una certificazione della conoscenza della lingua italiana in un contesto di precarietà che impone tempi di lavoro che lasciano poco margine alla cura del sé, rappresenta una richiesta ingiusta per spesso impossibile da esaudire. A ben vedere però la questione è un’altra. Se anche si arrivasse ad una riforma piena della legge sulla cittadinanza, potremmo dirci soddisfatti? Citando Balibar, Khosravi ci ricorda che «la sopravvivenza dell’umanità è concepibile in un mondo in cui lo spazio dello Stato-nazione venga decostruito e i cittadini sappiano riconoscere e accettare i non cittadini, gli apolidi e i clandestini» . Nella realtà confinata e confinante in cui viviamo, in un contesto in cui le categorie nate per proteggere crollano o svelano tutta la loro violenza e in cui ci si riferisce alle persone migranti come un’arma, spezzare il legame tra “diritti e cittadinanza”, riconoscere in modo pieno «il diritto di avere diritti» affermato da Hannah Arendt dovrebbe essere non l’unica vera battaglia ma una delle più importanti.