Milano è una città che non smette di cambiare. Cresce e si trasforma, tra conquiste e contraddizioni.
Negli ultimi anni — e ancora di più negli ultimi mesi — il dibattito pubblico sulla città si è acceso, a volte ridotto a semplificazioni e slogan. Quando si dice che oggi siamo al tramonto del “Modello Milano” non ci stiamo solo dicendo che mostra la corda un modello che ha puntato sulla città che sale e non si ferma, quella di una rincorsa alla crescita che è stata impennata di benessere per una quota non irrilevante di abitanti di questa città e spirale di espulsione per tanti altri.
Perché il “modello Milano” è stato anche un’architettura di patto che ha reso possibile un dialogo trasversale tra i tanti soggetti che vivono e fanno la città. Se vogliamo risalire alla stagione che prepara l’Expo del 2015 e prenderla come data simbolica di avvio della parabola che oggi sembra giungere al termine, dobbiamo riconoscere che la spinta propulsiva di quell’ascesa fu anche e soprattutto la miscela di visioni, competenze, interessi, energie civiche che ha contribuito a orientare l’innovazione sociale e l’immaginazione politica.
Se è vero che a Milano, come in tutta Italia, si è rotto l’ascensore sociale, dobbiamo riconoscere che si è rotto anche un dispositivo di confronto, in grado di favorire il protagonismo di “pezzi di città” che hanno concorso a tracciarne le traiettorie evolutive e che forse si aspetterebbero, oltre a una “buona gestione”, almeno il tentativo di agire un cambiamento. Ciò che in passato ha reso Milano, più volte nel corso della sua storia, un laboratorio di trasformazione sociale e politica che ha sempre anticipato le buone svolte nazionali.
Quel fermento è andato via via scemando, forse anche perché la narrativa e le retoriche hanno preso il sopravvento, camuffando una realtà che via via vedeva una serie di soggetti “invisibilizzarsi”, perdere capacità di voce e di rappresentanza sociale e politica. Non contare più, non appartenere più, non essere più a bordo di una comunità che perde cittadini, servizi, talenti come l’acqua da un colino.
Come trattenere, convogliare, accogliere e accompagnare quel valore che stiamo disperdendo? Qui noi crediamo andrebbe riscoperto l’orgoglio della politica: di quella “politica possibile” che prima di essere amministrazione dell’esistente, è risveglio della voglia di partecipare. L’ambizione di partire dalle aspirazioni per avvicinare, ricomporre tribù, mettere in dialogo gruppi e forze sociali, riscoprire il senso di un’appartenenza condivisa.
Una sfida enorme in una città che vede aumentare la forbice della diseguaglianza e che, da spazio urbano e comunitario ancora dotato di una buona infrastruttura di welfare pubblico, sta correndo il rischio di trasformarsi in una metropoli esclusiva, meta attrattiva buona per quei titoli di giornale che celebrano Milano come la “capitale dei miliardari”. Una città che si è polarizzata fra un buon dieci per cento di milionari e una rilevante quota di poveri assoluti, mentre le file alla Caritas s’ingrossano ogni giorno che passa.
Se una città viva ha bisogno di essere un ecosistema di intrecci e di attriti, di alleanze e mescolanze, va riscoperta la volontà di riconoscere il valore dell’“altro”: a partire dal fragile, il periferico, l’informale, non come scarto ma come risorsa di rinnovamento.
Serve dunque rimettere in dialogo città e politica, per ricostruire un filo che a volte sembra essersi spezzato. Andare oltre la cronaca e i suoi contrasti immediati, per mettere a fuoco la lunga lista di traguardi raggiunti, ma anche le difficoltà, le disarmonie, le fatiche che ogni crescita porta con sé. Non si tratta di fare un bilancio a freddo ma di guardare la città con lucidità e senza pregiudizi: con lo sguardo della ragione, dunque, ma anche con la voglia di riappassionarci alla cosa pubblica. Perché, come ha scritto Emanuele Felice, “la società che vive e freme, e lotta, è il grande terreno, inesaurito e fertile, da cui i partiti traggono linfa: ragioni per la battaglia, classe dirigente, consenso”.
É questo lo stimolo che vogliamo lanciare affinché la città non si senta impotente di fronte ai fenomeni, solo apparentemente ingovernabili, che la attraversano. Affinché Milano torni a essere una città in cui modernizzazione e sviluppo non si dissociano, una città capace di tenere insieme crescita economica e qualità della vita, traguardi personali e assistenza, impegno civico e dunque inclusione. Affinché Milano torni a essere laboratorio di politica, di trasformazione e d’innovazione sociale: in una parola, affinché Milano non tradisca Milano.
