Libri vivi
Giangiacomo Feltrinelli pensava ai romanzi – e, più in generale, ai libri – come “vivi” o “morti”. Vivi erano quelli capaci di registrare i mutamenti nei livelli intellettuali, estetici e morali del mondo, le nuove sensibilità, le nuove problematiche. Erano, diceva, i “libri necessari”.
Se oggi ci chiediamo quali storie possano ancora aprire spiragli in un presente dominato da conflitti endemici, polarizzazioni distruttive e chiusure identitarie, vale la pena ricordare in che modo Feltrinelli provò a costruire un sistema di finestre sul mondo per i lettori italiani, quando la globalizzazione non aveva ancora un nome.
Fin dall’avvio della prima collana letteraria, “Narrativa”, l’idea non è quella di consolidare un canone, ma di forzarlo dall’interno. Tra il 1955 e il 1960, accanto a qualche nome già affermato, compaiono voci allora quasi invisibili al pubblico italiano: i racconti del cinese Lu Hsun, nuove presenze americane come Jay Deiss, l’India contemporanea di Kamala Markandaya, lo scrittore francese Louis Guilloux.
Quando leggere diventa un atto politico
E, soprattutto, il Dottor Živago di Boris Pasternak (1957), un’opera che non solo incrina i confini del realismo socialista, ma trasforma la collana (e la casa editrice tutta) in un luogo di rottura, dove la letteratura diventa immediatamente materia politica.
Così “Narrativa” si configura, fin dall’inizio, non come una vetrina indistinta di letterature straniere, ma come un laboratorio di geografie culturali altre, spesso periferiche rispetto all’orizzonte eurocentrico.
A questa geografia alternativa si affianca l’“Universale Economica”, il progetto cui Feltrinelli aveva lavorato prima ancora di fondare la casa editrice: una collana pensata come spazio aperto, capace di accogliere saperi eterogenei e di renderli accessibili a un pubblico più ampio. Nel tempo diventerà uno dei luoghi in cui generazioni di lettori potranno misurarsi per la prima volta con idee e mondi nuovi.
Questa tensione si radicalizza nei primi anni Sessanta, quando l’asse del catalogo si sposta verso le collane sperimentali. Con “Le Comete”, lanciata con lo slogan “una collana come rivista di letteratura internazionale”, Feltrinelli e Valerio Riva mettono in corto circuito avanguardie italiane e straniere: l’école du regard francese, il Gruppo 47 tedesco e poi il Gruppo 63 italiano.
La collana non offre solo titoli, ma contesti: antologie che funzionano da repertorio delle giovani letterature, apparati critici che collegano i testi ai dibattiti politici e artistici coevi, paratesti concepiti come veri e propri manifesti. Finestre che sono atti di posizionamento, squarci aperti su zone che il discorso pubblico preferirebbe lasciare in ombra.
Emblematica, in questo senso, la vicenda dei Tropici di Henry Miller, che nel 1962 escono per Feltrinelli in un’edizione “fuori collana” destinata solo al mercato estero, con esplicito divieto di esportazione e vendita in Italia. Eppure, quella traduzione di Luciano Bianciardi circola sottotraccia: un’edizione semiclandestina, copie che passano di mano, il lavoro del traduttore-scrittore che smonta il confine tra letteratura “alta” e cultura giovanile ribelle, scavalcando le soglie della censura e preparando il terreno all’uscita ufficiale, consentita solo nel 1967.
Accanto ai linguaggi della rivolta generazionale – che la casa editrice dispone in forma di costellazione, mettendo in dialogo le inquietudini dei “giovani arrabbiati” inglesi e degli scrittori beat con un’Italia ancora profondamente segnata da moralismi religiosi e conformismi politici – l’orizzonte feltrinelliano intercetta precocemente anche le fratture geopolitiche del Novecento.
Storie dal mondo
Nei “Narratori di Feltrinelli” trovano posto, in rapida successione, alcune tra le voci più significative delle letterature del mondo: Pasternak e Blixen, ma anche Bellow, Yourcenar, Lowry, Mishima, Gombrowicz, Babel’, Gordimer, Dazai, Updike, Durrell, Lessing. Particolare attenzione è riservata alla narrativa di lingua tedesca (Grass, Frisch, Broch, Enzensberger, Bachmann, Johnson, Handke, Dürrenmatt) e, poco dopo, alla letteratura latinoamericana, che la casa editrice contribuisce a far conoscere in Europa con autori poi divenuti classici come García Márquez, Asturias, Guimarães Rosa, Vargas Llosa, Onetti, Puig, Scorza, Sabato.
Non si tratta solo di “importare” testi: le prefazioni, le quarte di copertina, le scelte di collocazione in collana sono pensate per mettere il lettore italiano di fronte a mondi in cui le categorie interpretative correnti cessano di essere formule astratte e rivelano la complessità concreta dei processi storici in atto.
Basti pensare a un romanzo come Un mondo di stranieri di Nadine Gordimer (1961), presentato come caso letterario capace di raccontare dall’interno la frattura di una società costruita sulla segregazione razziale. Analogamente, Il signor Presidente di Miguel Ángel Asturias (1958) conferma l’intento di Feltrinelli di esporre il lettore a mondi in cui il potere si manifesta come dispositivo di oppressione capillare, ampliando lo spettro delle categorie con cui l’Europa era abituata a leggere le forme del dominio.
In controluce, queste scelte delineano una precisa idea di editoria come pratica politica: non propaganda, ma costruzione di immaginari capaci di far percepire al lettore la propria posizione – e le proprie responsabilità – dentro una mappa globale in rapido riassestamento.
Che cosa potrebbe significare, oggi, raccogliere questa eredità? Forse ripartire da due elementi che attraversano il primo catalogo feltrinelliano. Da un lato, la fiducia ostinata nel fatto che siano i libri – e in particolare i romanzi “vivi” – a cogliere i cambiamenti di sensibilità prima che lo facciano i linguaggi ufficiali; dall’altro, la scelta di decentrare lo sguardo: fuori dall’Italia, oltre l’Europa, verso il Sud del mondo, le periferie urbane e climatiche del pianeta, i movimenti che contestano confini, estrazioni, gerarchie di valore.
In un’epoca in cui le guerre e le retoriche identitarie occupano il centro della scena, inseguire ovunque “libri necessari” significa continuare ad aprire varchi dove il discorso dominante costruisce muri, cercando nel lavoro editoriale non solo prodotti da vendere, ma possibilità di riparazione degli immaginari collettivi.
