Le classi sociali esistono ancora (e contano più che mai)

Logo editoriale


Articolo tratto dal N. 34 di Compagni di classe Immagine copertina della newsletter

Le classi sociali in Italia

È di questi giorni la pubblicazione del Rapporto Istat 2025 che ha confermato dati e tendenze già emersi chiaramente negli ultimi mesi. Un Paese in crisi demografica, in cui aumenta l’occupazione – più tra gli over 50 e le occupazioni a basso salario – ma aumentano anche i lavoratori poveri e ben un quarto della popolazione è a rischio povertà ed esclusione sociale. Un Paese polarizzato, tra una fascia ristretta di redditi alti che continuano a crescere e una vasta fascia di redditi bassi, stagnanti da ormai vent’anni.   

L’illusione degli anni novanta 

Aveva portato a dire che «stavamo diventando tutti classe media», si è dissolta. Nella nostra, come nelle altre economie a capitalismo “maturo”, l’espansione del terziario e la contrazione dell’industria – con la conseguente diffusione delle professioni tecniche e impiegatizie e la riduzione di quelle manuali e operative – stava portando all’allargamento dei ceti medi e alla riduzione del lavoro operaio e salariato, accompagnata da un aumento generalizzato del reddito.

Stavamo dunque andando verso una «società senza classi», formata da un’unica, grande classe (“media”). L’idea stessa che la società potesse essere ancora suddivisa in classi appariva obsoleta, a favore di concetti come strati o gruppi, più fluidi e “permeabili”, che meglio esprimevano il contesto che sembrava delinearsi di un mondo in cui la provenienza e le appartenenze, variabili, non erano più decisive nel determinare la collocazione sociale delle persone.

La marcia dei quarantamila o
Migliaia di impiegati e quadri della FIAT sfilarono a Torino in protesta contro i picchetti che li bloccavano da 35 giorni, spingendo il sindacato a chiudere la vertenza con un accordo favorevole all’azienda. Questa manifestazione è considerata l’inizio di un cambiamento radicale nelle relazioni tra FIAT e sindacato e segnò la rottura dell’unità tra i salariati del ceto medio (colletti bianchi) e gli operai della catena di montaggio.

Altri fattori di classe 

Eppure, più di cinquant’anni dopo il Saggio sulle classi sociali di Paolo Sylos Labini torniamo a parlare di classi: perché esistono ancora differenze sociali che non sono attribuibili ad altri fattori se non a quello della professione, ovvero del lavoro, da cui conseguono status, reddito e stili di vita. E non c’è un’unica classe media e vi sono ancora fasce tagliate fuori, i cui redditi consentono a malapena una vita decente. Certo, le classi oggi non sono più quelle, l’economia, il mondo del lavoro e la società sono mutati, come è cambiato il modo in cui vi guardiamo, le definizioni e finanche le teorie interpretative.

Vi sono poi disuguaglianze e disparità crescenti che vengono fatte risalire a fattori multipli. E tuttavia, molti indicatori mostrano che la condizione sociale – data dal mix di professione e reddito – è ancora determinante a tracciare i percorsi di vita di uomini e donne quanto la loro appartenenza a gruppi specifici e alle loro preferenze.  Anche in Italia, tra gli anni Settanta e Novanta, la terziarizzazione porta all’allargamento e alla differenziazione del ceto medio professionale e impiegatizio, mentre l’occupazione nell’industria inizia a diminuire, con la conseguente contrazione della classe operaia. La stratificazione all’interno delle classi aumenta, spinta dalle specializzazioni, cui corrispondono differenze di reddito che vanno crescendo tra i ceti.

Tuttavia, nel processo di de-industrializzazione di de-localizzazione in atto dagli anni Novanta, l’industria non scompare – il nostro Paese è ancora la seconda manifattura d’Europa – mentre la classe operaia e salariata, nelle sue varie articolazioni, rimane consistente, ancorché anch’essa “stratificata”. Viceversa, la mobilità sociale, orizzontale e ascendente, che era stata alta fino agli anni Ottanta, rallenta fino quasi a fermarsi, mentre aumenta la mutabilità della condizione professionale nel corso della vita delle persone, rendendo così l’appartenenza “di classe” transeunte. 

Indice di Gini in Italia
La figura riporta l’indice di Gini, cioè una misura della disuguaglianza nella distribuzione del reddito o della ricchezza all’interno di una popolazione, l’ indice va da 0 dove tutti hanno egual reddito/ricchezza a 1 dove una solo persona possiede tutta la ricchezza. (il campione comprende dipendenti pubblici e privati nella fascia di età 25-55 anni)
Fonte: Indagine sui bilanci delle famiglie della Banca d’Italia, 1989-2020.

Un sistema bloccato 

Da vent’anni ormai l’economia italiana ha smesso di crescere, la sua stessa evoluzione si è quasi “fermata”, e la sua struttura sociale appare oggi ingessata. I redditi dei ceti alti e medio-alti delle professioni più qualificate hanno continuato ad aumentare, mentre quelli dei ceti medio-bassi e bassi sono rimasti stagnanti. Anche profitti, rendite e redditi da capitale sono cresciuti molto più che i redditi da lavoro, soprattutto delle occupazioni meno qualificate, con il conseguente aumento delle disuguaglianze. 

Nel processo di stratificazione crescente, le classi sono venute disarticolandosi. Le modifiche introdotte nel mercato del lavoro e la crescente flessibilità della domanda di lavoro hanno portato alla frammentazione della stessa classe operaia e salariata, industriale e dei servizi. Il movimento operaio – la cui azione aveva permesso di contenere le disuguaglianze di reddito e contribuito alla messa in atto di politiche pubbliche di largo impatto sociale – è sostanzialmente venuto meno, anche in ragione della sottostante disomogeneità interna della classe stessa. E, tuttavia, vi sono ancora classi dominanti e ceti subalterni e i rapporti di forza sono tornati a vantaggio dei primi. Con il mutare della struttura sociale e del quadro politico nazionale e internazionale, sono poi cambiati il conflitto sociale e la rappresentanza politica degli interessi dei diversi gruppi e ceti.  

Indice di mobilità sociale in europa
Con questo grafico possiamo vedere la mobilità sociale italiana (la possibilità per una persona di cambiare la propria posizione sociale o economica rispetto a quella dei propri genitori, che può esser data o da un lavoro prestigioso o da uno altamente remunerativo) in contrapposizione con quella di altri paesi europei

Una scala sociale sempre più “lunga” 

Se fino agli Novanta i ceti medi e popolari avevano trovato nelle forze politiche di sinistra il loro referente primario, lungo linee di appartenenza ideologiche “novecentesche”, con il prevalere dell’impostazione neo-liberista – in larga parte sposata anche dalle sinistre liberal – sia la classe operaia e salariata che i ceti medio-bassi, soprattutto nelle fasce meno protette e “garantite”, ingrossate dal lavoro immigrato, si sono visti sempre meno rappresentati, progressivamente allontanandosi dai partiti di sinistra e finanche dalla partecipazione elettorale.   

In una scala sociale fattasi più “lunga”, distinta per fasce con diverso grado di “inclusione” e protezione, sono le fasce inferiori, ma non le ultime, che si sono così mostrate più sensibili al messaggio sicuritario, protezionista ed esclusivista delle destre. Mentre a sinistra prevaleva l’enfasi sui diritti individuali e le opportunità – nell’idea che si potesse astrarre dalla dimensione di classe – la condizione delle classi basse e medio-basse è andata peggiorando, riportando in primo piano il tema del rapporto tra ceti dominanti e subalterni. Le classi popolari, peraltro, includono oggi non solo tutte le fasce che compongono la classe operaia e salariata nient’affatto “scomparsa”, ma anche quei ceti medi impoveriti, la cui domanda di sicurezza sulle proprie prospettive e di protezione, è tornata a essere più forte che mai.  

Ed è per questi motivi, quindi, che ha ancora senso, oggi, parlare di classi sociali e della loro domanda di rappresentanza politica.  

Ricevi il numero completo di PUBBLICO nella tua casella di posta

Non sei ancora iscritto? Compila il form!