Lady Macbeth: una storia milanese tra spie, censura e archivi   


Articolo tratto dal N. 62 di Bolle e balle Immagine copertina della newsletter

La stagione della Scala apre per la prima volta con Una Lady Macbeth del Distretto di Mcensk, in occasione del cinquantesimo anniversario della morte di Dmitrij Šostakovič. Un’opera russa che ha anche una storia profondamente milanese, connessa alla saga editoriale della Feltrinelli e del Dottor Živago.

Siamo di fronte a due storie “parenti”, nate nella stessa città, nello stesso clima culturale e politico, e che hanno visto muoversi, seppur su scacchiere diverse, gli stessi attori. 

Lac. Dopo due anni di successo travolgente, divenne uno dei casi di censura più clamorosi del Novecento: un articolo brutale sulla Pravda decretò di fatto la sparizione dell’opera.

Bisognerà attendere la morte di Stalin nel 1953 perché il compositore – che nel frattempo era diventato un simbolo della resistenza con la sua Settima Sinfonia – decidesse di rimettere mano al lavoro, creando una seconda versione intitolata Katerina Izmajlova.

Lady Macbeth, scritta nel 1934 da Dmitrij Šostakovič

Katerina Izmajlova incrocia Milano 

Ed è qui che la storia incrocia Milano. Siamo alla fine degli anni Cinquanta, in un’epoca da Guerra Fredda fatta di cortine di ferro ma anche di permeabilità sorprendenti.

Era l’Italia di Togliatti, dei viaggi continui tra Roma e Mosca, un’atmosfera che ricorda il film I Girasoli di De Sica. In questo contesto di informazioni che filtravano attraverso una rete informale di “spie” e uomini di cultura, alla Scala si venne a sapere che Šostakovič stava lavorando alla nuova versione.

Dagli archivi del Teatro sono emersi documenti straordinari che ricostruiscono il tentativo audace dell’allora direttore artistico, Francesco Siciliani. Chi lo ha conosciuto, come il maestro Chung o Claudio Abbado, lo descrive come un “seduttore” infallibile, capace di convincere chiunque a fare qualsiasi cosa. 

Siciliani prese carta e penna. Sapeva che Milano era il centro nevralgico di certi rapporti e scrisse al compositore russo.

Non dichiarò apertamente di voler replicare il colpo mondiale che Giangiacomo Feltrinelli aveva messo a segno tre anni prima con Pasternak, ma il sogno era esattamente quello: ottenere la prima mondiale della nuova Lady Macbeth.

Per sedurre Šostakovič mise sul piatto argomenti convincenti: gli promise la pubblicazione con Ricordi e, soprattutto, gli ventilò la possibilità di una regia firmata da Luchino Visconti.

La Scala voleva superare Venezia, che dieci anni prima aveva messo in scena la prima versione con le scene di Guttuso, in un sistema di concorrenza culturale che animava l’Italia del dopoguerra. 

La trattativa proseguì serrata. La Scala chiese la partitura, o almeno delle anticipazioni sui ruoli vocali per preparare i cantanti. Šostakovič non rispose, prese tempo, ma la determinazione milanese era tale che la stagione 1958-59 venne annunciata con il titolo in cartellone: prevista a marzo la Lady Macbeth (o meglio, Katerina Izmajlova).

Il problema era che la musica non arrivava. Šostakovič tergiversava.

Oggi capiamo che, pur essendo stato riabilitato, doveva muoversi con estrema cautela: concedere la prima mondiale a un teatro occidentale prima che l’opera fosse eseguita in Russia gli sarebbe costato carissimo. Non lo disse mai esplicitamente, ma il silenzio fu eloquente. Alla fine, la Scala dovette cedere.

Un trafiletto sul Corriere della Sera annunciò laconicamente la sostituzione del titolo con Una vita per lo Zar di Glinka, mascherando il fallimento di un’operazione ardita e un po’ spericolata.

Queste due vicende, quella di Pasternak e quella di Šostakovič, raccontano una Milano capace di guardare oltre le frontiere ideologiche in nome della cultura. Se Feltrinelli riuscì nell’impresa grazie al suo spirito di uomo libero, la Scala ci provò con la stessa audacia, guidata da uomini come Ghiringhelli e Siciliani che volevano rendere il teatro protagonista della rinascita e del boom economico.

Sophia Loren dal film I Girasoli
di Vittorio De Sica

Storie che meritano di essere raccontate 

L’opera arrivò poi a Milano nel 1964, diretta da Nino Sanzogno, anche se senza la regia di Visconti (probabilmente un’esca usata da Siciliani). Era una versione “ripulita”, addolcita rispetto all’originale del ’34, soprattutto in quegli aspetti più crudi ed erotici che avevano scandalizzato Stalin.

Oggi, riportare in scena questo titolo è chiudere un cerchio. Ed è anche un’occasione per riflettere sull’importanza dei nostri archivi.

La Scala, diventata ente autonomo nel 1921, custodisce nei suoi depositi l’intera storia del Novecento musicale: dagli ultimi anni di Puccini al fascismo, dalla ricostruzione alle avanguardie.

È un patrimonio immenso che stiamo lavorando per rendere sempre più accessibile agli studiosi e al pubblico, perché, come dimostra questa vicenda, le carte sono i testimoni vivi di sfide, sogni e storie che meritano di essere raccontate.

Il dialogo tra Feltrinelli e il nostro teatro, in questa storia come in mote altre, dimostra che Milano è una città di archivi preziosissimi. Archivi che devono parlarsi.

Lady Macbeth del Distretto di Mcensk al Teatro Comunale di Bologna
Lady Macbeth del Distretto di Mcensk al Teatro Comunale di Bologna, 2014

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