Progetto Manhattan
16 luglio 1945. Alamogordo, deserto del Nuovo Messico. Scoppia la prima bomba atomica. Assistono all’esperimento: membri del Progetto Manhattan, inclusi i fisici, gli ingegneri e il personale militare coinvolti nello sviluppo della bomba.
A Alamogordo non avviene un massacro. Ma tutti capiscono che possedere quello strumento significa esercitare dominio.
Quella scena è tornata potentemente nel nostro tempo presente. Nella scena di oggi la bomba atomica non è il soggetto, ma l’oggetto. Non fa la storia usarla, ma fa la storia distruggere quella di «altri». Ancor più se nell’intervento non muoiono persone. Il fine, come a Alamogordo ottanta anni fa, è comunicare e mostrare la propria potenza. Sono tornate a contare le oligarchie attraverso la comunicazione della forza.
La scomparsa del futuro
Tuttavia, a differenza di ottanta anni fa, ciò che ora domina è il silenzio di chi subisce quella forza.
Dunque: da una parte minaccia cresciuta in modo prepotente, dall’altra eclissi della pressione dell’opinione pubblica. Cosa lega questi due elementi e che cosa differenzia la scena di allora da quella di ora? La scomparsa del futuro.
Dietro chi agita la minaccia del nucleare c’è la dichiarazione di non voler cambiare il presente ma di garantire rapporti di forza favorevoli alla propria parte. Contemporaneamente ciò a cui assistiamo è la verticale perdita di terreno di una mobilitazione che chiede un futuro diverso.
Negli anni più cupi della guerra fredda la mobilitazione dell’opinione pubblica ha funzionato. Cosa impedisce oggi all’opinione pubblica di funzionare o anche, più radicalmente, di non ritenere vincente una mobilitazione? È la fiducia nel cambiamento che sembra decisamente in declino.
Sopravvivere sembra essere il fondamento di questo nostro tempo. L’effetto, come aveva intuito Canetti nel capitolo finale (dal titolo “Il dissolvimento del sopravvissuto”) di Massa e potere è un innalzamento del tasso di rischio
Passione massima nel potente, scriveva Canetti, che alimenta la certezza di sé sopravvivendo prima ai nemici, e poi alla sua stessa gente. L’effetto è l’arretramento, il ripiegamento e, alla fine, l’inerzia dell’opinione pubblica.
Come invertire il profilo?
Contrastando la condizione totalitaria del potente che si racconta come «sopravvissuto».
Il primo passaggio consisterà nello sforzo di proporre un vocabolario di ciò che intendiamo con le parole come (qui ne indico solo due esemplari): “sviluppo” oppure “felicità”. Parole che non significano andiamoci a cercare una teoria, una ideologia, più seccamente «una fede» cui affidarci. Ma avere la voglia di domandare, di cercare.
Il principio non è: ho una teoria, chi la compra? Bensì: ho un’inquietudine, vogliamo lavorarci insieme per trovare un’uscita che non crei nuove gerarchie?
Certo la consapevolezza è nell’essere avvertiti che quel percorso nasce da una condizione di minoranza. Ma tutti i percorsi innovativi nascono come eresie. L’importante è non «autonominarsi capi» (altro vizio ripetuto molto spesso tra i perdenti in attesa di riscatto). Il fine è mettersi in gioco, insieme, per sollecitare la rottura dell’inerzia. È già accaduto altre volte. Perché non può accadere ancora?