Qualche giorno fa, Giorgia Meloni e Antonio Tajani, saltellando sorridenti al coro “chi non salta comunista è…”, ne hanno dato conferma: in Italia i leader politici non guidano più partiti, guidano curve ultrà. Mancava solo il megafono, la sciarpa al collo e il “ci vediamo fuori dal Parlamento” per completare il quadro. La scena sembrava meno un comizio elettorale e più il pre-partita di un derby particolarmente sentito.
“Noi contro loro”
Ed è proprio da qui che capiamo come funziona oggi la politica italiana: i leader non parlano agli elettori, arringano tifosi. E i tifosi, si sa, non discutono, non analizzano, non dubitano: tifano, punto. Con emozione pura, orgoglio tribale e una buona dose di adrenalina.
Da decenni siamo abituati a schierarci come si faceva ai tempi dei “rossi” contro i “bianchi”: un perfetto esempio di logica in-group/out-group, quella che ti porta a dire “noi” con orgoglio e “loro” con sospetto.
Un tempo questa divisione nasceva da qualcosa di serio e nobile: l’ideologia. Ci si identificava in un partito come in una famiglia politica, con visioni del mondo diverse, culture politiche radicate e persino veri e propri stili di vita territoriali.
Ogni gruppo costruiva il proprio capitale sociale, cioè fiducia, relazioni, reti, ma… solo per chi stava dalla stessa parte. Agli altri si offriva poco più di un sorriso tirato e molta diffidenza.
Oggi la dinamica “noi contro loro” c’è ancora, ma ha cambiato carburante: non più idee, ma emozioni. Non più ideologie, ma simpatia, empatia, fascinazione, a volte persino amore politico (o qualcosa che gli somiglia parecchio). Come direbbe Zizi Papacharissi, viviamo nell’epoca degli “affective publics”, gruppi di persone uniti non da ciò che pensano, ma da ciò che provano.
Il risultato?
Il leader non è più un rappresentante politico: è una celebrità. Ha i suoi fan, i suoi hater, i suoi meme ufficiali. Ogni uscita pubblica genera reazioni come a una partita di calcio: applausi, fischi, cori da stadio. E se osi criticarlo, ecco arrivare i supporter pronti a difenderlo “con affetto”… e magari anche con qualche emoji poco rassicurante.
Curve personali e curve digitali
Nell’epoca attuale, quindi, ogni leader ha la sua curva personale: un pubblico di tifosi che pretende attenzioni continue, quasi fosse la fanbase di un centravanti da venti goal a stagione.
La politica sembra essersi trasferita definitivamente allo stadio: una gigantesca “Curva Nord”, dove l’unico compito è applaudire il capo, esaltarlo, seguirlo ovunque e, soprattutto, sospendere qualsiasi forma di pensiero critico. E dove c’è il tifo, c’è anche l’altra faccia: il leader divisivo. C’è chi lo ama alla follia e chi lo detesta con la stessa intensità.
Amore e odio, fiducia e disgusto, entusiasmo e rabbia: la politica è diventata una roulette emotiva. Sui social poi, l’effetto è amplificato: Facebook, Instagram e compagnia sono ormai la vera curva digitale, dove ogni post del leader scatena ondate di entusiasmo o indignazione.
Non esiste più un’opinione pubblica alla Jürgen Habermas – dialogo, confronto, argomentazione – ma un mosaico di micro-arene emotive, spesso impermeabili ai fatti, dove ognuno coltiva la propria “verità personale”.
Come nel calcio, il tifoso vede solo quello che vuole vedere: protesta per il rigore inesistente, ignora il fallo plateale, e difende il proprio capitano anche quando incappa in un errore clamoroso.
Uguale identico in politica: il leader sbaglia?
No, impossibile. È colpa dell’arbitro, del VAR, dei giornalisti, dei poteri forti, dei pianeti allineati male. Il leader divisivo prospera grazie alla disintermediazione: non parla più a un pubblico generico, ma a tribù differenti, ciascuna con il proprio linguaggio, le proprie emozioni, i propri rituali.
E soprattutto con i propri tifosi, che sono molto più attivi dei vecchi elettori: si informano (quando conviene), condividono, commentano, combattono, producono contenuti e fanno propaganda gratuita 24 ore su 24.
Il tifoso politico oggi lavora: costruisce l’identità del leader, ne amplifica la visibilità, ne difende l’onore come fosse un parente stretto. E così la polarizzazione si alimenta, si allarga e si riproduce nel grande stadio della politica italiana, dove la partita non finisce mai e il risultato non conta: basta non smettere di tifare.
