Daniel Fernández: Anche la censura preventiva e progressista innesca l’autocensura 

Intervista a Daniel Fernández 


Articolo tratto dal N. 55 di Le mani sulla cultura (a volte censurano) Immagine copertina della newsletter

La redazione di Pubblico in dialogo con Daniel Fernández, editore di EDHASA, sulle ambiguità del politicamente corretto e sulla necessità di difendere il libro come bene pubblico. A partire dal caso del libro El odio di Luis G. Martín, Fernández riflette sui nuovi confini della libertà editoriale e sulla deriva dell’autocensura nelle democrazie occidentali. L’editore denuncia il rischio di leggi “apparentemente progressiste” che, nel tentativo di proteggere le vittime, finiscono per limitare la libertà di pubblicare.

Daniel Fernandez
Daniel Fernandez

Lei è l’editore di una delle case editrici storiche del mondo ispanico: EDHASA. In un’epoca in cui la lettura sembra perdere centralità, cosa significa difendere l’idea del libro come bene pubblico? 

EDHASA nel 2026 compirà 80 anni. Fu fondata da un editore catalano che dovette fuggire dalla guerra civile spagnola, prima a Parigi e poi in Argentina. EDHASA è infatti l’acronimo di Editora y Distribuidora Hispanoamericana Sociedad Anónima. Il rapporto di EDHASA con la censura è stato molto particolare, così come lo era la censura spagnola sotto la dittatura di Franco. Esistevano uffici di censura preventiva che autorizzavano o meno la pubblicazione, tuttavia EDHASA, in quanto distributore e editore, non solo pubblicava libri ma li importava anche dall’America Latina, soprattutto dall’Argentina. A volte questo causava inevitabili problemi con la polizia spagnola, ma bisogna dire che il controllo della dogana della Guardia Civil non era molto efficiente: se non sui pacchi non comparivano nomi come Federico García Lorca o Karl Marx, non venivano fermati. Erano solo libri. 

L’indifferenza verso i libri, in fondo, accompagna la Spagna fin dall’inizio della sua democrazia, nel senso che si può pubblicare qualsiasi cosa, e, se questa viene ritenuta offensiva o incitante all’odio, si può ricorrere ai tribunali, che decidono a posteriori, non a priori. E sta proprio qui il punto centrale della censura: se è preventiva oppure no.  

In questo senso, una delle principali difese dell’Unione Internazionale degli Editori è ciò che in inglese si chiama “freedom to publish”. Non è solo libertà di espressione, ma libertà editoriale, di poter trasformare un’idea in un libro. Il libro rimane il più grande strumento di conoscenza, piacere ed esplorazione di altre vite che la cultura umana – e quella occidentale in particolare – abbia mai creato. 

Stiamo creando leggi apparentemente progressiste che mirano a impedire la pubblicazione di libri che possano offendere. La polemica intorno al libro L’odio di Luis G. Martín, pubblicato da Anagrama e ispirato al caso di José Bertón, ne è un esempio.

Può spiegare meglio il caso e le polemiche intorno al libro El Odio di Luis G. Martín ? 

Parte tutto dal caso del doppio figlicidio da parte di José Bretón, molto seguito dai media spagnoli: un padre uccise i suoi due figli e ne fece sparire i corpi; ci fu un’indagine e lui fu condannato. Inizialmente negò l’omicidio, ma si trattava chiaramente di un delitto legato alla violenza di genere, quella che in Spagna chiamiamo violenza vicaria: nel tentativo di colpire la donna – in questo caso l’ex moglie e madre dei suoi bambini – l’uomo arriva a uccidere i propri figli. 

Questa figura gelida, con molti tratti in comune con quella del “mostro” dell’immaginario comune, ha attirato l’interesse dello scrittore Luis G. Martín, già vincitore del premio Herralde e autore con una solida reputazione letteraria. Martín scrisse in carcere a José Bretón, il quale si mostrò entusiasta alla possibilità di raccontare la propria testimonianza, da cui lo scrittore trasse un libro intitolato El odio, un’opera di confine tra fiction e non fiction, ma che si può considerare non fiction romanzata. Il libro fu acquisito da Anagrama, ma ci fu un’ondata di sdegno molto forte in Spagna: il pubblico, in particolar modo le donne, rimproverava all’autore di non aver contattato la madre dei bambini, la vittima vicaria. La reazione fu tale che Anagrama decise di non pubblicare più il libro e rescisse il contratto. 

Io personalmente credo che questo libro che meritava di essere pubblicato. Ma, a differenza di quanto accadde con “Versetti satanici” (il libro dell’autore Salman Rushdie ndr) – dove la reazione fu quella del regime iraniano – qui il contraccolpo è venuto da quello che potremmo chiamare “fuoco amico”, cioè da persone progressiste, che accusavano l’autore di mancanza di sensibilità. La madre dei bambini portò la questione in tribunale, sostenendo che il libro non potesse essere pubblicato perché la ri-vittimizzava. Va detto che questa ri-vittimizzazione, comprensibile a livello umano, era già avvenuta: era stata diffusa una serie televisiva documentaria sul caso, disponibile a chiunque in Spagna.  Comunque, lei ha presentato due ricorsi legali, e in entrambi i casi i tribunali spagnoli hanno autorizzato la pubblicazione, richiamandosi alla libertà di stampa, di espressione e di pubblicazione. I tribunali hanno quindi rifiutato la censura preventiva: se la donna si sente danneggiata, potrà intraprendere azioni legali contro l’autore e l’editore dopo la pubblicazione.

Cosa racconta questo caso della tendenza all’autocensura nelle nostre società? 

L’attuale governo spagnolo, che è una coalizione di sinistra, sta cercando di ampliare la fattispecie di “reato d’odio” a casi come questo, rendendo impossibile la pubblicazione di certi libri. Io penso che sia una cattiva scelta, perché anche una censura morbida – seppur giustificabile – innesca un meccanismo terribile: l’autocensura. Lo scrittore inizia a pensare: “Meglio non affrontare questo argomento, meglio restarne fuori”.

E questo è un po’ quello che, secondo me, sta succedendo in buona parte del mondo occidentale in questo momento. Per anni ci siamo presi gioco e lamentati del politicamente corretto, che tuttavia ora si è spinto un po’ oltre: è diventato un monito a non disturbare, non offendere, essere scrittori che non danno fastidio. Questo vale anche per il giornalismo, secondo la cui vecchia definizione “è notizia tutto ciò che qualcuno non vuole venga pubblicato”. È un mondo complesso perché, se una notizia è falsa, si può denunciare e fermarla, ma in un contesto in cui circolano così tante fake news, è difficile capire dove tracciare il confine. Penso che si debba lasciare che siano i libri a difendersi da soli. 

E se poi aggiungiamo alla questione l’utilizzo dell’intelligenza artificiale, diventa tutto ancora più complicato.

Dall’Italia vediamo che, negli ultimi anni, Vox è diventata una forza politica importante. L’estrema destra sta esercitando pressione culturale in Spagna? 

Beh, non solo l’estrema destra. In Spagna, al momento, le posizioni e le proposte di Vox e quelle del Partito Popolare vanno molto di pari passo, tanto che a volte è difficile distinguerle. È scoppiata da poco una polemica perché il sindaco di Madrid, che ha la maggioranza assoluta, e quindi non ha bisogno di Vox, ha comunque adottato una loro proposta: per accedere all’interruzione di gravidanza, le strutture pubbliche devono informare le donne dell’esistenza della cosiddetta “sindrome post-aborto”, che porterebbe a depressione, alcolismo, dipendenza da droghe. Una sindrome inventata, non riconosciuta da medici, psichiatri o psicologi; credo che nemmeno la Chiesa si sia mai spinta a nominare qualcosa del genere.

Quindi, cosa stiamo vedendo? 

Stiamo vedendo che Vox ha davvero alzato lo stendardo della battaglia culturale. È evidente che in tutto l’Occidente c’è una spinta reazionaria e nostalgica per un mondo “migliore”, in cui la classe media non era minacciata. Viviamo tempi oscuri, ma anche tempi paradossali. Abbiamo creato colossi tecnologici guidati da mega miliardari che i meccanismi democratici di controllo non sono riusciti a contenere.

In passato, il sistema giuridico e politico americano interveniva per spezzare il monopolio delle grandi aziende, ma ciò non sta accadendo con i giganti digitali, che accumulano fortune personali oscene, quasi incomprensibili in termini aritmetici. Viviamo un capitalismo tecnologico nuovo, che è un capitalismo dell’intimità – perché cediamo i nostri dati – ma anche un capitalismo della sorveglianza: sanno tutto ciò che facciamo. 

Siamo testimoni di un momento particolare: la gente condivide tutta la propria intimità online, ma è un’intimità “editata”, in cui viene proposta solo la versione migliore di sé, o quella che provoca più invidia o più successo sociale. E allo stesso tempo ci si autocensura.  

Io credo che nemmeno Vox si azzarderebbe a proporre in Spagna un ufficio di censura preventiva, come nel franchismo. Non l’hanno mai detto, né credo lo farà mai, ma forse non ne hanno neanche bisogno. Perché se Vox e il PP salissero al potere, sarebbe la macchina democratica e giuridica stessa, con il diritto alla denuncia penale, a rendere difficile pubblicare certe cose. Siamo in un momento in cui la democrazia si sta auto-inoculando un antidoto complicato. Si dice sempre che Hitler vinse le elezioni e così salì al governo, ma è un errore storico: Hitler non vinse mai un’elezione, anzi, quando ottenne il potere, stava anzi perdendo consensi. 

C’è un libro di uno storico britannico, Henry Ashby Turner, edito da EDHASA – perdona la pubblicità – che si chiama “A trenta giorni dal potere”. Spiega come la destra tradizionale, gli aristocratici terrieri, la borghesia, la destra liberale facilitarono l’ascesa di Hitler, per poi vederselo sfuggire al loro controllo. Non credo che Vox sia la stessa cosa, ma è un partito reazionario, non solo conservatore. 

Alla stesura di questa intervista ha contribuito Paola Borelli

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