La redazione di Pubblico ha intervistato Juergen Boos, direttore della Fiera del Libro di Francoforte, una delle voci più autorevoli del panorama editoriale internazionale. Con lui abbiamo parlato del rapporto tra potere, politica e cultura, della dipendenza del mondo editoriale dai finanziamenti pubblici e delle nuove forme di censura che attraversano le democrazie occidentali. Boos mette in guardia da un fenomeno crescente: l’autocensura, che può nascere tanto dal timore dello Stato quanto dalla pressione delle proprie comunità.
La nostra prima domanda per lei è generale ma non per questo meno importante. Potere, politica e cultura: come vede oggi questo rapporto e perché è problematico?
Un articolo pubblicato su Frankfurter Allgemeine Zeitung, il nostro principale giornale in Germania, pubblicato sotto pseudonimo da un autore russo, raccontava che fino al 2023-24 il governo russo non si interessava all’editoria libraria, non la prendeva nemmeno sul serio. Questo perché prediligeva altri media, soprattutto quelli digitali, come strumenti per influenzare l’opinione pubblica. Ma due anni fa, evidentemente, il governo ha scoperto che anche i libri possono essere pericolosi, e adesso c’è molta censura.
Il problema è che oggi, quando si parla di politica, si parla soprattutto di come conservare il potere. Se guardiamo al contesto globale, è evidente come da parte delle forze politiche sia stata abbandonata ogni ambizione a entrare in contatto con le persone per migliorare la loro qualità di vita. Quel che interessa è il mero mantenimento del potere.
Qui la relazione tra cultura e politica si fa pericolosa: lo scrittore, il romanziere, il giornalista, per vocazione, mettono in discussione lo status quo. Al contrario il potere vuole che tutto resti com’è. Lo scontro nasce da qui.
Ed è uno scontro alla pari?
La cultura non è – come spesso crediamo – indipendente, ma anzi rappresenta lo specchio della società. Più la cultura è sotto pressione, più lo è la democrazia stessa. E più gli Stati si avvicinano a sistemi autoritari, più cercheranno di controllare il settore culturale. Non è un ragionamento per assurdo: le statistiche sulla democrazia rivelano come il numero degli Stati che consideravamo democratici è calato negli ultimi 10 anni di oltre il 30%. Un dato eloquente. E poiché la cultura spesso dipende dai fondi, dal denaro che riceviamo da istituzioni o dallo Stato, ecco che si svela il problema.
Da una parte vi è bisogno di fondi nel settore culturale, anche nell’editoria libraria. In Germania, per esempio, dipendiamo in qualche modo dallo Stato: abbiamo un’aliquota IVA ridotta, e accordi sui prezzi fissi; per aiutare le librerie a sopravvivere, a mantenere viva la diversità. Dall’altra c’è uno Stato che cerca di veicolare messaggi circoscritti, che è contro il pluralismo.
Secondo lei, come può il settore culturale difendersi da questo paradosso della dipendenza dai fondi pubblici?
Penso che sia davvero difficile. In uno dei miei viaggi a New York, ho chiesto alle grandi case editrici americane quale fosse, secondo loro, la minaccia più grande per l’industria. E mi hanno risposto: la messa al bando dei libri, soprattutto negli Stati del Sud, dove ne sono stati vietati alcuni, tra cui anche Harry Potter, per esempio. La situazione è molto seria: le case editrici, aggregandosi alla PEN America, si sono mosse e stanno facendo causa al governo su più livelli, scolastico comunale e statale, per questa forma di censura.
Dobbiamo unirci e agire subito, non possiamo aspettare che le cose migliorino da sole e che il problema sparisca.
Secondo lei la cultura dovrebbe porre dei limiti?
No, la cultura non dovrebbe mai porre limiti. La cultura è, per sua stessa natura, controversa, non può imporre una direzione univoca, del calibro di “è così e basta”, sarebbe una contraddizione in termini. Quello che la cultura può fare è aiutare a porre le domande giuste, o mettere tutto in discussione, stravolgere completamente il punto di vista.
E in che modo la cultura può agire come barriera contro forze politiche o movimenti culturali anti-democratici? Dovrebbe avere questo ruolo, secondo lei?
La cultura avrà sempre e comunque un ruolo: è politica. Ogni romanzo, ogni opera letteraria, è già una domanda di per sé, porta a chiedersi “da dove vengo, dove sto andando, come voglio vivere adesso?”. E con quest’ultima domanda, un romanzo diventa immediatamente politico.
Anche quando rispecchi la società in cui vivi, o guardi al passato, la letteratura ti porrà sempre domande. La stessa sensazione si può provare nella musica classica contemporanea: anche lì si percepisce che non esiste un solo modo di ascoltarla, ma molti.
Pensa che nella scelta dei temi culturali di interesse pubblico, e nell’esercizio del pensiero critico siamo diventati più conformisti rispetto al passato?
Sì. Quello che mi spaventa davvero è l’autocensura, una minaccia seria in ambito culturale, che può assumere due forme. C’è quella che nasce a causa del timore dello Stato: quando si dipende da finanziamenti pubblici, spesso conviene tacere per non creare problemi a nessuno. Poi c’è l’autocensura che veste i panni della mia stessa comunità: bisogna stare attenti a restare nei parametri imposti dal gruppo, a firmare e sostenere le petizioni giuste, pena l’esclusione. Se dicessi in certi ambienti “Forse il governo ha anche ragione”, verrei subito messo da parte. Perché, per definizione, il governo è sempre il problema.
Cosa pensa del ruolo dell’intelligenza artificiale e la sua influenza sulla riduzione di esercizio mentale nella scrittura e nel pensiero critico?
Hai citato l’intelligenza artificiale, ma in realtà non è né “artificiale”, in quanto è creata dall’uomo, né “intelligente”, perché guarda solo al passato, non pone domande. Questa assenza di pensiero critico, che è invece intrinseco alla cultura, fa dell’intelligenza artificiale una vera e propria forma di censura. Il fatto che fornisca risposte basate su ciò che è inserito nel sistema crea un problema: se ci sono libri censurati, viene a mancare l’accesso a fonti complete.
Che cosa significa per un libro essere pericoloso oggi? È una questione di contenuti o è una questione di restituire ai libri la dignità che meritano?
Oltre al divieto dei libri – che vediamo soprattutto negli Stati Uniti – emergono anche dati preoccupanti sul calo dei lettori. È un problema reale. La gente legge meno rispetto al passato e molti giovani preferiscono generi come new adult, new romance, dark romance, e così via. In Germania le vendite di questi libri sono aumentate del 30%, e immagino che in Italia sia lo stesso. Il punto è: leggono, ma cosa leggono? E sono in grado di affrontare testi più complessi? Se leggono romanzi semplici su amori adolescenziali, scuole pubbliche, vampiri… va bene, almeno leggono, speriamo che il passo successivo sia approcciarsi a letture più impegnative. Ma dobbiamo anche proteggere questi libri complessi dal mercato: se non riusciamo a venderli, allora abbiamo un problema.
Alla stesura di questa intervista ha contribuito Paola Borelli
