“L’ha detto l’intelligenza artificiale”
Il successo dell’espressione “intelligenza artificiale” è andato, nel nostro tempo, oltre le più rosee aspettative del suo inventore, il professor John Mc Carthy, il quale 70 anni fa pensò di usare un’espressione accattivante e con obiettivi avveniristici e ambiziosi, al fine di ottenere fondi per l’organizzazione di una conferenza estiva. Era il tempo della celebre conferenza di Darmouth. Adesso è il tempo di “l’ha detto l’intelligenza artificiale”, così come in passato si diceva “l’ha detto il giornale” e “l’ha detto la televisione”. Un cambiamento repentino della nostra cultura che, a partire dall’individuazione di questo soggetto (“l’intelligenza artificiale”) quasi fosse di per sé autorevole, presenta senz’altro tratti inquietanti.
Oggi il cammino dell’intelligenza artificiale è andato oltre la cerchia di ricercatori e specialisti che si sono occupati con professionalità di questo tema per decenni durante i momenti di scarsa attenzione e di ridotte risorse pubbliche e private (i cosiddetti “inverni” dell’intelligenza artificiale). Come ho descritto nel mio libro Geopolitica dell’intelligenza artificiale (2024), un’essenziale discontinuità che ha reso possibile questo sviluppo – e, di conseguenza, l’ondata di attenzione spasmodica – è l’evoluzione dell’infrastruttura di calcolo per l’addestramento e il funzionamento dei vari modelli (i prodotti che il senso comune definisce attualmente “l’intelligenza artificiale”). Pertanto, la competizione sull’intelligenza artificiale è un’evoluzione della competizione sulla filiera dei semiconduttori, che impegna già da almeno 10 anni Stati Uniti e Cina attraverso misure di guerra economica basate sulla sicurezza nazionale e che ho spiegato nel dettaglio nel mio libro Il dominio del XXI secolo (2022).
NVIDIA e l’infrastruttura dell’IA
Esiste un’infrastruttura, un sistema nervoso, un sistema industriale che rende possibile questo processo. Come è stato per il personal computer e lo smartphone, stiamo parlando sempre dell’industria dei semiconduttori. E soprattutto, dell’azienda capo-filiera di questo processo: NVIDIA. Proprio la storia di quella che oggi è l’azienda del mondo a maggiore capitalizzazione consente di seguire le tracce politiche ed economiche del mondo della tecnologia in cui abitiamo.
Jensen Huang, fondatore di NVIDIA, che fin dagli inizi (il 5 aprile 1993) guida l’azienda, è nato a Tainan, Taiwan. Quando va nella Repubblica Popolare Cinese, dice: “sono nato in Cina”. Si è trasferito negli Stati Uniti a 9 anni, come centinaia di migliaia, milioni di persone che dall’Europa, dall’Asia e dal resto del mondo hanno alimentato il potere statunitense.
Jensen Huang ha potuto sviluppare NVIDIA grazie a scommesse ardite dei fondi di venture capital degli Stati Uniti e grazie alla struttura industriale dell’Asia orientale: in particolare, la produzione delle fabbriche di TSMC a Taiwan e le varie fasi e competenze dell’assemblaggio di elettronica, dovute anch’esse soprattutto ad aziende taiwanesi. Poiché la filiera dell’intelligenza artificiale dipende da decine di partner taiwanesi di NVIDIA, ciò rende ancora più preoccupanti i rischi che riguardano l’isola.
I clienti di NVIDIA (e in alcuni casi i suoi avversari) sono i giganti digitali del mondo. Da un lato, vi sono aziende come le statunitensi Microsoft, Meta, Alphabet, Amazon (e DeepMind, OpenAI, Anthropic, società di intelligenza artificiale che dipendono da esse), nonché realtà cinesi ByteDance, Alibaba, Tencent. Poi c’è Huawei, capo-filiera dell’enorme sforzo cinese sui semiconduttori.
In questa partita sta emergendo ormai un elefante nella stanza: l’enorme scala del talento cinese. Lo stesso Jensen Huang ha sottolineato questo punto quando ha detto più volte pubblicamente, oltre che privatamente a Trump e negli altri incontri istituzionali a Washington: “Il 50% di ricercatori sull’intelligenza artificiale al mondo sono cinesi”. Le conferenze scientifiche sull’intelligenza artificiale nei suoi vari campi (in particolare le potenziali applicazioni visive e robotiche) ne sono una costante testimonianza, così come la crescita dei brevetti e degli articoli scientifici. Nessun Paese nella storia ha mai immesso così tante persone con competenze scientifiche e tecnologiche nel mercato del lavoro come, oggi, la Cina comunista. L’India, Paese più popoloso del mondo, si avvia ad avere capacità simili e ha già superato la Cina quanto al numero di studenti nelle università statunitensi.
Pertanto, anche al di là delle nicchie tecnologiche, pur fondamentali e di cui si potrebbe discutere a lungo, e del controllo sulla struttura materiale del mondo, la partita del XXI secolo sarà decisa soprattutto da un fattore: dove vorranno studiare, fare ricerca e lavorare i talenti che alimentano gli ecosistemi della ricerca e dell’industria. La vera questione è se gli Stati Uniti resteranno il magnete dei talenti del mondo oppure perderanno questo scettro.
Secondo Wang Huning, l’intellettuale cinese al centro del mio libro La Cina ha vinto, acuto osservatore dello sviluppo tecnologico e del sistema formativo degli Stati Uniti alla fine della guerra fredda, il vero avversario dell’America è lei stessa. Come recita il titolo del suo libro del 1991: America contro America. L’America sarà battuta quando si farà troppo male da sola per sostenere il primato in quella che il consigliere di Roosevelt Vannevar Bush chiamava la “frontiera infinita”.

