I danni dell’industria pesante
Gli impianti industriali—soprattutto nei settori del carbone, dell’acciaio, della petrolchimica e del cemento—sono profondamente radicati nel territorio europeo e le loro emissioni sono considerate difficili da ridurre. L’industria pesante è responsabile di una quota significativa delle emissioni puntiformi di CO₂ in Europa, contribuendo al riscaldamento globale, oltre a rilasciare sostanze tossiche (come i metalli pesanti) che rappresentano un rischio immediato per la salute pubblica delle comunità locali.
Esempi di forte presenza industriale includono le regioni della Ruhr e della Lusazia in Germania—prevalentemente per via delle centrali elettriche a carbone—e le città di Taranto, Terni e Piombino in Italia, dove si concentra la produzione siderurgica. L’ex ILVA di Taranto, il più grande impianto siderurgico d’Europa, è un esempio emblematico di mancanza di diversificazione industriale, infrastrutture pubbliche carenti e molteplici forme di ingiustizia ambientale. Tra queste rientrano gravi danni alla salute e decessi legati alle emissioni tossiche, oltre a disoccupazione e salari ben al di sotto della media nazionale. Anche Ruhr e Lusazia rientrano tra le regioni strutturalmente deboli della Germania.

Meccanismi di segregazione occupazionale
Le fabbriche inquinanti possono danneggiare le economie locali creando segregazione occupazionale e meccanismi di blocco (lock-in) legati alla “specializzazione negativa”, che alla lunga riducono le opportunità lavorative. Questa combinazione tra inquinamento e sottooccupazione è nota come deindustrializzazione nociva.
Per comprendere lo sviluppo regionale è necessario considerare i fattori storici e locali che determinano i percorsi tecnologici ed economici. I meccanismi di blocco si riproducono attraverso sistemi di conoscenza e strutture socio-tecnologiche locali. L’industria pesante, in particolare, opera in contesti con basso dinamismo tecnologico e scarsa concorrenza. Questi settori ospitano spesso i cosiddetti “outliers tossici”: impianti altamente inquinanti e inefficienti, la cui pericolosità ambientale non è inevitabile dal punto di vista tecnologico, ma è dovuta alla mancanza di investimenti in tecnologie di produzione più pulite.
Il caso dell’ex ILVA a Taranto ne è un chiaro esempio: una monocultura industriale, unita alla resistenza manageriale all’innovazione, ha prodotto una doppia dipendenza—economica e sanitaria—per la popolazione locale.
Relazione tra bassi salari e inquinamento
Molte regioni con bassa diversificazione economica e salari stagnanti dipendono fortemente da industrie inquinanti. Questi “luoghi lasciati indietro” spesso soffrono di declino industriale, spopolamento, bassi salari e un diffuso senso di abbandono. Alcuni di essi non si sono mai realmente industrializzati e continuano a restare in ritardo cronico.
In queste aree, l’inquinamento industriale rappresenta tanto un problema ambientale quanto un’emergenza sanitaria. Incide sulla qualità della vita e genera vulnerabilità diseguali di fronte alle politiche climatiche nazionali e internazionali. I gruppi sociali marginalizzati sono quelli che pagano il prezzo più alto, spesso con minori risorse per proteggersi e con una salute mediamente peggiore.
Questa combinazione di esposizione e scarsa resilienza rende gli impatti sanitari una preoccupazione centrale all’interno delle comunità dei lavoratori. L’esposizione cronica, inoltre, compromette la capacità di queste comunità di attivarsi e prevenire ulteriori danni. L’ingiustizia ambientale, quindi, riflette e rafforza disuguaglianze sociali più ampie.
Le conseguenze politiche
Come possiamo evitare che la disuguaglianza territoriale sfoci in esclusione o in un backlash politico? Questo fenomeno—spesso definito “la vendetta dei luoghi che non contano”—nasce dalla combinazione di declino economico-industriale e marginalizzazione sociale (come dimostrano casi come la Brexit o gli shock legati alla globalizzazione). Affrontare la disuguaglianza spaziale è oggi urgente: non solo per contenere l’ascesa del populismo di destra che pone una minaccia alle politiche ambientali, ma anche per favorire la partecipazione democratica in una transizione giusta.
Comprendere l’economia politica dei luoghi lasciati indietro è essenziale per costruire transizioni verdi inclusive. La partecipazione attiva dei cittadini è fondamentale per superare la rassegnazione a un futuro segnato da povertà, malattie e scarsa rappresentanza politica.

Verso una geografia delle transizioni
La transizione verso un’economia più verde avrà un impatto diretto sulle industrie pesanti e sui loro lavoratori. È fondamentale ascoltare i bisogni delle comunità coinvolte, soprattutto in quei territori lasciati indietro. Tuttavia, dobbiamo rigettare la falsa narrazione secondo cui le comunità debbano scegliere tra lavoro e salute, o tra occupazione e ambiente.
Dobbiamo invece passare da una geografia dell’inquinamento a una geografia delle transizioni. Questo approccio mira a garantire che nessuna comunità venga esclusa dalla transizione ecologica. I lavoratori delle industrie inquinanti non devono essere visti come ostacoli alle politiche climatiche, ma come potenziali alleati nelle battaglie ambientali. I decisori politici devono collaborare con queste comunità per co-progettare un futuro in cui l’ambientalismo della classe lavoratrice sia protagonista.