“Assistiamo alla stagione del conflitto. Gli studenti ci dimostrano che la loro coscienza critica è viva”


Silvia Romani, Professoressa ordinaria di Religioni e Mitologia del mondo classico e Delegata d’Ateneo ai “Rapporti con l’editoria e al Public Engagement” dell’Università Statale.


Articolo tratto dal N. 29 di Attacco al sapere Immagine copertina della newsletter

A colloquio con Silvia Romani

Libertà, diritto allo studio, politica internazionale, ricerca e diritti sociali: il mondo accademico italiano e globale si accende e dimostra di reagire, nonostante la repressione. Silvia Romani, Professoressa ordinaria di Religioni e Mitologia del mondo classico e Delegata d’Ateneo ai “Rapporti con l’editoria e al Public Engagement” dell’Università Statale, dialoga con la redazione di Pubblico sui temi caldi dell’Università oggi.

Silvia Romani

Vediamo lo scontro politico e culturale assumere delle proporzioni sempre maggiori anche nelle università. Come fa un grande ateneo europeo, pubblico, come l’Università Statale, per garantire il pluralismo e la produzione critica del sapere in un tempo così complesso 

Viviamo ancora, all’interno del nostro Ateneo e, più in generale, all’interno delle università pubbliche italiane, in una democrazia culturale. È importante ribadirlo, perché, se fino a poco tempo fa, il diritto alla libertà di espressione e al pluralismo delle istanze sembrava un dato acquisito, ora tocca riconoscere come davvero nessun diritto, neppure quelli su cui si è contato sinora come una condizione inalienabile, conquistata a prezzo di molte battaglie spesso cruente, può dirsi conquistato per sempre. 
E questo è, al momento, davvero un presidio. Ce lo teniamo stretto, come la condizione essenziale per poter continuare a fare il nostro lavoro e per poter accogliere le nostre studentesse e i nostri studenti con consapevolezza della nostra missione. 
Negli ultimi 18 mesi l’Università è stata attraversata da proteste a tratti molto vive da parte degli studenti. Il nodo sta nel garantire libertà di pensiero e parola, tutelando allo stesso tempo il rispetto reciproco, perché quando si dà spazio ad alcune voci, altre possono sentirsi escluse o non rispettate.
È una sfida quotidiana, che tocca ogni singolo aspetto della vita comunitaria, all’interno di un’università pubblica. Le sensibilità oggi sono molto accese e rispettarle tutte è complicato. Il progetto condiviso sull’Ottantesimo anniversario della Liberazione è una buona pratica: un lavoro sulla memoria che, quando è storia e tangibile, difficilmente può diventare offensiva o essere strumentalizzata. Oggi, ciò che ci chiedono con forza le nuove generazioni è usare la memoria, mettere loro a disposizione il lavoro sulla memoria, per poter decifrare l’oggi e rileggere anche il passato. Non ci fanno sconti — ed è giusto così. Non possiamo evitare il confronto. Fa paura, certo, perché ci richiede di spostarci talvolta da una dinamica più tradizionale di rapporto fra professore e studente, ci chiede di “ingaggiarci” di più, di trovare nuove modalità di insegnamento e di comunicazione scientifica. Ma rappresenta anche una possibilità, forse una speranza. 

Alla luce del disegno di legge Bernini, come sta la ricerca e il diritto allo studio? 

Abbiamo avuto tagli, come tutti sanno, e non piccoli: questa è la realtà dei fatti. Subiamo un continuo impoverimento delle risorse; abbiamo sempre meno fondi. Facciamo sempre più fatica a promettere ai nostri giovani, che si affacciano al mondo della ricerca, qualcosa di concreto dopo il dottorato.
Per l’Ateneo che rappresento, il diritto allo studio è una questione cruciale. È stato anche uno dei temi centrali nella recente competizione per il rettorato, e in particolare nel programma di Marina Brambilla. Una scelta coerente con la sua storia, essendo stata in precedenza prorettrice al diritto allo studio: il suo mandato nasce proprio con l’intenzione di rafforzare ulteriormente questo impegno. Un impegno che riguarda sia gli studenti sia i giovani ricercatori, di cui è bene continuare a occuparsi come una questione primaria, data l’estrema difficoltà di trovare per loro condizioni di ingaggio che prevedano una continuità, anche minima, nella ricerca e nell’insegnamento.
Nonostante questo scenario, la Statale reagisce con strumenti concreti: come l’esenzione totale dalle tasse universitarie fino a 30.000 euro di ISEE. È indispensabile anche affrontare l’enorme tema dell’accessibilità abitativa. Perché, se da un lato garantiamo l’accesso allo studio, dall’altro gli studenti si scontrano con affitti che sono semplicemente insostenibili, per le famiglie italiane come per quelle internazionali. 
E questo è oggi uno degli ostacoli principali che dobbiamo affrontare con urgenza. È un percorso che portiamo avanti da anni, anche in cooperazione con gli altri Atenei lombardi, con la consapevolezza che Milano è — e deve diventare sempre di più — una città universitaria.

Che cosa pensa il territorio e il mondo “fuoridell’Università?

Il mio compito, oggi, è rappresentare il mio Ateneo, per quel che riguarda il public engagement, cioè il dialogo con tutti i soggetti attivi nel territorio. Non è più possibile pensare a uno scenario, sia esso locale o più ampio, senza coinvolgere tutti gli attori in gioco. Naturalmente non tutti indistintamente, ma quelli che condividono il senso di responsabilità — e anche l’onore — di far parte di un tessuto sociale e culturale che ha sempre reagito con coraggio, andando oltre gli ostacoli e cercando di interpretare il futuro. 
Negli ultimi tempi, all’interno dell’Università c’è molta più consapevolezza sulla necessità di una relazione dialogica con il territorio. È un cambiamento voluto. Tuttavia, il dialogo con alcuni interlocutori esterni, abituati a modalità più tradizionali, può ancora risultare complesso, anche se nel tempo si è fatto molto più ricco e proficuo. 
Ci stiamo già muovendo nella direzione giusta. Alcuni sono pronti a riconoscerlo, altri ancora no. Ma è normale: i grandi cambiamenti devono prima consolidarsi internamente, affinché all’esterno si possa percepire chiaramente una nuova identità. Solo così si riesce davvero a cambiare pelle — e a renderlo visibile. 

Le mobilitazioni studentesche e accademiche in corso sono varie. Sono spesso rappresentate in un modo fuorviante, sia in Italia che all’estero. Come reagisce il sapere di fronte alla repressione? 

Eravamo preoccupati dalla passività dei nostri ragazzi, ne sospettavamo una sostanziale apatia. Oggi, ci stanno mostrando che avevamo sbagliato e che la loro coscienza critica è viva. Ora, assistiamo a una stagione di conflitto, a tratti molto acceso. Il nostro compito è fornire loro ulteriori strumenti con cui divenire cittadini sempre più consapevoli, ma non è quello di offrire loro temi, di indirizzarli. Non hanno e non devono aver bisogno della nostra approvazione: non è il nostro ruolo. In parte siamo anche interlocutori critici, persino l’altra parte rispetto a chi protesta. È giusto che ciascuno interpreti il proprio ruolo fino in fondo.
Gli studenti stanno crescendo ed è importante che possano farlo senza sentirsi dire da noi come si parla, come si agisce, come si protesta, fermo restando il rifiuto di ogni forma di prevaricazione e violenza. Le loro istanze sono legittime. A volte, però, è il linguaggio e una certa visione ristretta della realtà che sollevano delle preoccupazioni.
In questo momento, la protesta talvolta sembra essere l’alveo in cui si coltiva non solo un’istanza di cambiamento ma anche la rabbia — molta rabbia — a cui non si accompagna sempre un reale desiderio di trasformazione. Gli slogan sono quelli degli anni Settanta e spesso manca un progetto che vada oltre l’indignazione, che costruisca davvero un’alternativa.
All’interno delle proteste ci sono anime diverse, non un fronte unico. Ed è proprio questa frammentazione che, talvolta, fa perdere di vista il senso profondo della lotta. Si ha l’impressione che ci si muova in un cortocircuito emotivo: disagio, rabbia, frustrazione. È un sentimento che non va ignorato, ma che può preoccupare. Accoglierlo è giusto. Ma serve anche, col tempo, aiutarlo a trovare direzioni più fertili. 

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