Dall’Erasmus all’“ultimo giorno di Gaza”
Sono stata una ragazza della generazione Erasmus, proprio a cavallo del nuovo millennio. Per noi è naturale sentirci cittadini europei: l’Europa è stata il quotidiano dei vent’anni, tra amicizie, studi e viaggi internazionali – l’Euro è arrivato poco dopo, ma già attraversare i confini liberamente, con la solo carta d’identità, ti faceva sentire a casa dappertutto. Avevamo visto cadere il Muro di Berlino da bambini, l’Europa era il nostro orizzonte politico di speranza, un continente senza guerre, senza muri, senza confini. Mi rendo conto che per un ventenne di oggi le cose sono diverse. È difficile che la bandiera blu stellata susciti una vera emozione, in Italia e negli altri Paesi membri. Negli ultimi anni l’UE ha assunto il volto severo, asettico ma a volte feroce (nei confronti della Grecia per esempio) delle misure economiche di austerità. E però nel frattempo quella stessa bandiera è diventata l’orizzonte di speranza per tanti giovani che vivono fuori dall’Unione, come quelli che nel 2014, in Ucraina, si affollavano nella piazza principale di Kiev, ribattezzata per l’appunto Euromaidan, e sventolavano le bandiere dell’Unione europea insieme a quelle dell’Ucraina.
E oggi? L’Unione Europea che abbiamo è molto lontana dalla visione maturata in quell’“educazione europea” che fu la Resistenza contro nazismo e fascismo. Eppure resta un esperimento audace, senza precedenti nella storia, dotato di un potenziale enorme. E, già così com’è, pur così parziale e limitata rispetto all’ambizioso sogno originario degli Stati Uniti d’Europa delineato dagli antifascisti confinati a Ventotene, l’UE ha una forza sufficiente e caratteristiche tali da far paura agli imperi del nostro tempo, come dimostrano gli attacchi convergenti dalla Russia di Putin e dagli Stati Uniti ci Trump. L’UE rappresenta una minaccia: sia sul piano economico, sia come modello politico e sociale democratico, sia come baluardo rispetto alle ambizioni espansionistiche e ai modelli di potere in cui la forza prevale sul diritto, nazionale e internazionale. Un’Unione più compatta e integrata sul piano politico e tecnologico, e quindi anche nella difesa, è un incubo per loro: per questo cercano di minarne la coesione. La sua forza mite avrebbe un peso e una capacità di deterrenza più grande di qualunque arsenale.
Contro l’immagine dell’Europa come freddo carrozzone burocratico, lontano dalla vita dei cittadini, l’aggressività del presidente Usa sta facendo emergere in quanti modi l’UE protegga i suoi cittadini. Imponendo, per dirne una, vincoli e standard qualitativi elevati sugli alimenti a tutela dei consumatori, che vietano, per esempio, di importare carne di manzo americana trattata con gli ormoni. Oppure con la legislazione e i regolamenti come il Digital Service Act, che pongono un argine alla bulimia dei “broligarchi” che a Trump si accompagnano, limitando le posizioni monopolistiche per favorire la concorrenza. Anche i meccanismi di controllo democratico della governance dell’Unione, pur lenti e per molti versi farraginosi, negli ultimi tempi hanno dato segni di vitalità: lo scorso 23 aprile la commissione Affari giuridici del Parlamento europeo (Juri) ha votato all’unanimità un parere legale secondo cui la forzature della presidente della Commissione Ursula von der Leyen, che aveva fatto ricorso a una procedura d’urgenza per approvare il piano ReArm Europe (poi frettolosamente ribattezzato Readiness 2030) sarebbe contraria ai trattati, dunque illegale, aprendo la via a un possibile ricorso davanti alla Corte di giustizia dell’Unione.
Al tempo stesso, è doloroso constatare come l’Unione europea sembri aver “perso l’anima”, ovvero la coerenza col nucleo di valori, fragili ma potentissimi, che dal 2000 ha iscritto nella sua Carta dei diritti fondamentali. Lo vediamo nelle sciagurate politiche per ostacolare l’accesso ai migranti e favorirne l’espulsione; nel silenzio assordante nei confronti di quanti sta accadendo a Gaza. Come ha sottolineato con forza la reporter di guerra Francesca Mannocchi parlando dal palco della manifestazione per l’Europa tenutasi a Bologna il 6 aprile, sulla carneficina di Gaza siamo ancora in attesa delle condanne dei vertici dell’Unione europea, della presidente della Commissione europea, del presidente del Consiglio europeo. Sottoscrivo la sua richiesta: “Voglio un’Europa che condanna i crimini di guerra, che reagisce politicamente, non che agisce sulle macerie”.
Per questo ho aderito con convinzione all’appello alla mobilitazione “dal basso”, fisica e virtuale, lanciato per il 9 maggio, giornata in cui abbiamo celebrato l’Europa e il suo processo di unificazione, per far diventare proprio Gaza protagonista della giornata dell’Europa, con l’hashtag “L’ultimo giorno di Gaza”. Perché l’Unione Europea possa diventare credibile nel suo ruolo di culla e riferimento del diritto umanitario e internazionale. Perché, scrivono i promotori, “Senza il mondo Gaza muore. Ed è altrettanto vero che senza Gaza siamo noi a morire. Noi, italiani, europei, umani.”
Bendetta Tobagi
“Je suis comme l’Europe”: i miti dell’Erasmus e la costruzione delle identità transnazionali
In un recente libro lo storico Sante Lesti ha scritto che quello delle comuni radici cristiane è oramai “il solo mito attualmente esistente sull’Europa”: una costruzione identitaria, con fini politici e sociali, che riguarda l’Europa sia in quanto progetto politico, sia in quanto area culturale. Almeno un’altra costruzione mitologica pare però abitare le incarnazioni dell’unione sovranazionale: il programma Erasmus (ora Erasmus+), mito sull’Unione Europea ma anche dell’Unione Europea, oltre che longeva politica comunitaria.
Pur riguardando una minoranza della popolazione universitaria, quello della circolazione internazionale di studenti è infatti un fenomeno che non solo rispecchia l’intrecciarsi di relazioni accademiche transnazionali, ma che orienta le aspettative di giovani e famiglie. Negli anni il programma Erasmus – inaugurato nel 1987 per favorire l’integrazione attraverso la mobilità studentesca – ha interagito sia con il dispiegarsi del progetto di uno spazio europeo dell’istruzione superiore, avviato dal Processo di Bologna (1999) e dalla Strategia di Lisbona (2000), sia con precedenti pratiche di mediatizzazione dell’idea di Europa. Superate le difficoltà iniziali, l’Erasmus ha così attivato innumerevoli narrazioni capaci di intrecciare nozioni sull’esperienza giovanile, sull’istruzione superiore, sulle culture nazionali, sulle pratiche di mobilità, e, fondamentalmente, sui cittadini e le cittadine dell’Europa comunitaria e poi dell’UE. Teorie e esempi, in sintesi, di che cosa significhi “essere europei”.
Si tratta di discorsi accelerati dall’avvio del programma, ma che largamente lo precedono, e che contribuiscono ad una mitologia che è quindi composita, solo parzialmente coordinata, e intrinsecamente transmediale. Una mitologia che prolifera sia attraverso i racconti prodotti in prima persona, sia attraverso stampa, libri, e film. Proprio il ruolo delle pellicole pare ancora poco esplorato, nonostante l’uscita recente di un documentario come The Erasmus Generation, realizzato con l’esplicito scopo di ribadire l’importanza del programma. Non si tratta però del primo film sul tema: già ad inizio millennio la produzione franco-spagnola L’Appartamento spagnolo (L’Auberge espagnole, Cédric Klapisch, 2002) aveva presentato l’Erasmus come un’esperienza, prima ancora che accademica, sentimentale, personale e identitaria.
La pellicola offriva, attraverso la storia del giovane francese Xavier e del suo soggiorno a Barcellona, la materializzazione visuale di un utopico spazio giovanile europeo, costruito su città cosmopolite, ma concretizzato soprattutto in una fitta rete di connessioni tra persone e culture. Connessioni inizialmente rappresentate come possibili anche grazie alle nuove tecnologie: durante i titoli di testa il montaggio presentava, scomposti come tessere di un mosaico, scene e personaggi, introdotti da due scorci del protagonista. Prima questi compariva alla scrivania, impegnato a scrivere al computer, poi già a Barcellona, mentre conversava al cellulare. Giunto però a narrare l’Erasmus e la coabitazione tra Xavier e studenti di sei diverse nazionalità, il film rappresentava tali connessioni nella forma tutta umana di un collage di culture.
Durante la prima visita all’“appartamento spagnolo” in condivisione, la confusione di lingue e opinioni era la stessa che il protagonista diceva di sentirsi dentro, riconoscendo nello spazio domestico della convivenza internazionale il proprio spazio interiore, mentre le voci dei giovani esprimevano le tesi del film. Dopo una lezione, Xavier e alcuni altri studenti discutevano ad esempio del rapporto tra culture nazionali e appartenenze sovranazionali, in un dialogo in spagnolo. Per Isabelle, studente belga e presto settima coinquilina dell’appartamento, era “contraddittorio difendere il catalano proprio mentre si costruisce l’Europa”, ma subito emergeva condivisa l’idea di identità nazionali plurime, capaci di convivere anche all’interno della stessa persona. Attraverso il giovanilissimo dei suoi protagonisti, il film celebrava così la confusionaria vitalità di una immaginata identità europea, composta da tessere magari spigolose, ma sempre compatibili, mai in aperta contraddizione.
Le soluzioni linguistiche della messa in scena, che alterna francese, spagnolo e inglese, sono fondamentali in tal senso: nel segmento onirico del film, Xavier, sovraccaricato dal crogiolo di esperienze verbali e sentimentali, sogna di dimenticare la propria lingua materna, in uno spaesamento psichico che segnala il suo definitivo transito verso una cultura cosmopolita. È soprattutto a partire dal vissuto degli studenti Erasmus, suggerisce la pellicola, che può materializzarsi l’identità europea. Sono infatti gli inquilini dell’“appartamento spagnolo” a raddrizzare il turista loro ospite, pronto a deridere ogni stereotipo nazionale, ed è Xavier a comprendere Barcellona e a mostrarla alla coppia francese trasferitasi lì per lavoro. La mobilità studentesca è qui declinata, insomma, anche come esperienza esistenziale, come rito di passaggio. Nella conclusione del film Xavier, ritornato in Francia, fa i conti con la propria identità, mentre un secondo montaggio a mosaico accompagna le sue riflessioni: “Je suis français, espagnol, anglais, danois. Je suis pas un mais plusieurs. Je suis comme l’Europe: je suis tout ça. Je suis un vrai bordel”.
Klapisch, nell’articolare la propria visione dell’identità europea, evita dunque la retorica dell’eccellenza, ma propone il sogno di una contaminazione culturale individuale senza frizioni, incurante degli squilibri economici e di genere che sempre di più invece, secondo diversi commentatori, rischiano di compromettere i propositi inclusivi del programma. Ne risulta una versione della mitologia Erasmus che, pur ancora parzialmente operante, fatica a dare senso ai tanti interrogativi della politica europea dell’ultimo ventennio, dalla crescita degli affitti, alla turistificazione aggressiva, fino alla gestione delle crisi economiche e migratorie.
Giulio Argenio