Parafrasando Marx ed Engels si potrebbe dire: “Uno spettro si aggira per l’Europa: l’Europa”. Perché?
Il progetto europeo è percepito dai nazionalismi come minaccia e ostacolo al loro sviluppo, a quella forma di realizzazione nella storia del concetto puro e non contaminato di popolo-nazione. Che cosa ci dicono i risultati della prima tornata di voti in Romania, se non questo? George Simion, leader del partito di estrema destra Alleanza per i Romeni (AUR), è risultato vincitore del primo turno delle contestate elezioni presidenziali. Il suo messaggio si ispira a Donald Trump e Giorgia Meloni: riappropriarsi del proprio destino non è condividerlo con altri, ma escluderli sistematicamente.
Da dove nasce questa condizione e come uscirne prima che contamini il futuro del progetto europeo?
Nasce dalla convinzione che la riscoperta dell’identità nazionale era la chiave per dare un futuro e dall’idea che solo l’oppressione dello straniero aveva impedito a ciascuno di essere se stesso. Perciò liberarsi dello straniero (nell’Europa del 1989: il crollo del sistema dell’Armata rossa) significava solo riscoprire la propria vocazione di comunità oppressa che ora poteva finalmente riprendere nelle proprie mani il proprio destino.
L’Europa per quegli attori non era un investimento di futuro, ma era un modo per chiedere legittimazione al proprio neonazionalismo. Ma lo stesso accadeva anche a Ovest. L’Europa che nasceva dal progetto di Strasburgo, della Comunità europea, non aveva e non ha coltivato un profilo di responsabilità. Il domani era solo una «marcia trionfale» di successo senza pensare di dovere pagare “dazio”. Per questo contemporaneamente, il progetto europeo non ha pensato di sviluppare una difesa comune, ma nemmeno ha pensato di creare un vero sistema di welfare europeo.
Il dopo 1989, per la Comunità europea, è stato un “liberi tutti” senza obblighi di reciprocità, ma solo con un progetto di dominio di “forti” contro “deboli”. Europa senza responsabilità è emersa nel caso della crisi greca, dieci anni fa. L’Europa è diventata per molti un incubo. Sia per chi era in crisi, sia per coloro che non lo erano perché improvvisamente si trattava di pensare continente, insieme e non solo rispetto a se stessi. In quel momento storico, l’Europa da sogno è diventata distopia. In quella fermezza stava un’idea molto semplice: la tua crisi non è un mio problema e il tuo essere in crisi è solo un handicap.

Come uscirne?
La sfida che abbiamo di fronte è rovesciare la crisi in opportunità. Era la stessa condizione di quando a Ventotene tre visionari pensarono l’Europa di domani. La realtà andava in direzione diametralmente opposta; pensare l’Europa voleva dire partire da una condizione di sconfitta, di supremazia incontrastata delle forze nemiche di sentirsi con le «spalle al mare». Oggi pensare l’Europa è di nuovo sapere di avere le «spalle al mare», ma di intraprendere politiche di inclusione, sapendo che progresso e sviluppo non sono gratuiti, sono un costo e quel costo non lo pagherà nessuno, ma che va intrapreso insieme. Come scriveva molti anni fa Michael Walzer nel suo Esodo e rivoluzione, la terra promessa la si può raggiungere solo insieme, non montando ciascuno uno sulle spalle dell’altro e cercando di salvarsi da soli.
Guerre, costituzione, riarmo
Due scene soprattutto: da una parte sta la inazione dell’Europa a fronte della guerra in ex-Jugoslavia nella prima metà degli anni’90; dall’altra il 29 maggio 2005 quando va al voto l’ipotesi di Trattato dell’Unione in alcune realtà nazionali. Il voto popolare in Francia e Paesi Bassi lo respinge. In entrambi i casi il venir meno a una sfida che includeva prendersi delle responsabilità. Si potrebbe osservare come tutta la discussione in corso sul possibile riarmo dell’Europa sia – in ritardo – una replica a quella inazione. Contemporaneamente quella decisione spaventa perché non avviene pensando una politica della cittadinanza, ma si propone come filosofia della Fortezza Bastiani, avrebbe detto Dino Buzzati nel suo Il deserto dei tartari: si torna nella fortezza non perché il nemico arriva, ma perché alle domande che il presente pone, siamo solo capaci di rispondere rinchiudendoci nella Fortezza
Solo pensando utopia è possibile pensare futuro. Non è il profilo che emerge da una decisione di bilancio. Solo collocando quella scelta di bilancio in una prospettiva di progetto sarà possibile caricarsi di quella scelta. Diversamente quella condizione si presenta come noia, come uggia, si risolve nel ripiegamento verso la comunità chiusa. Non è questo, di nuovo che ci dicono i dati che vengono dalla Romania?
Che cos’è il quadro emozionale che ci trasmettono i sovranismi se non la sensazione struggente di un domani che appare consumato in un passato, ma non corazzato di futuro? Anche per questo, sottolinea Loretta Napoleoni, il futuro ci appare sottratto in mano a pochi oligarchi e tecnocrati e da cui tutti noi saremmo esclusi. Per cui quel voto quello che dice è: “voglio il futuro, solo per me. Non credo alle promesse di una politica che si fa comunità umana. Chiacchiere!”.
Uno degli effetti di quella ideologia dello sviluppo che secondo Ezra Klein e Derek Thompson (Abundance, Avid Reader Press) sarebbe conseguenza di una visione povera e autopunita (questo sarebbe il motivo della sconfitta del paradigma della «sostenibilità»). Pensare domani non significa ri cucire una tela strappata, o consolare gli sconfitti, ma chiedere responsabilità, moltiplicare i luoghi e le voci di progetto. Comunque, non è andare a cercare oligarchi o pifferai, ma provare a costruire un’orchestra.
Le domande aperte sul futuro dell’Europa
A lungo abbiamo dato per risolto un confronto che invece chiede tutti i giorni di esserci. È a questa condizione che dobbiamo rispondere, come in queste settimane ci ha ricordato Donald Sassoon.
Il clima di competizione dell’ultimo decennio, obbliga l’Europa a interrogarsi una volta per tutte sul proprio futuro, ma con qualche decennio di ritardo e in una situazione politica, economica e diplomatica deteriorata. Così Alessandro Colombo nel suo contributo a questo numero.
Uno scetticismo, se non una aperta ostilità, verso l’UE caratterizza le ondate sovraniste in crescita elettorale in Europa, osserva Andrea Ruggeri.
Allo stesso tempo, dice Giulio Argenio, l’investimento sulla costruzione di una nuova generazione europea in forza dell’esperienza Erasmus deve fare i conti con quell’esperienza a circa 40 anni dal suo avvio (le prime esperienze di Erasmus risalgono al 1987). ci chiede di riflettere su un sogno che deve fare i conti sugli squilibri economici e di genere che sempre di più invece rischiano di comprometterne i propositi inclusivi di quel programma.
Ma quella generazione, anche in forza di quella delusione, aggiunge Benedetta Tobagi, chiede di esserci, di non arretrare di fronte alle sfide del nostro tempo presente che ancora ruotano intorno alla questione: quale presente diverso vogliamo per noi, ora.
Se l’ipotesi del riarmo si accredita oggi come la ritrovata volontà di essere protagonisti della propria storia da parte dell’Europa, poi si tratta di esprimere un’idea di futuro. Le tecniche, le scienze, l’economia, il profitto hanno i loro limiti. Un’autorità regolativa legittima di portata planetaria non può essere latitante. Forse come per molte altre cose abbiamo poco tempo. Il futuro viene, forse, se non si smette di pensarlo e dal prendersi in carico le domande che il presente non è in grado di risolvere.
Raccontarci la condizione distopica è indispensabile per poter pensare futuro, non per convincersi che è inutile pensarlo. “Pensare la barbarie – ha scritto molti anni fa Edgar Morin – è contribuire a rigenerare l’umanesimo. E dunque resisterle”. Anche per questo affrontare il viaggio dell’Europa da utopia a distopia non è diagnosticare un destino.
Alla rovescia: è provare a definire un percorso per domani dove il primo principio è sottoscrivere un patto per tutti.