Non è un lavoro per madri 


Articolo tratto dal N. 61 di Non è un lavoro per donne Immagine copertina della newsletter

Pubblichiamo qui di seguito un estratto da Non è un lavoro per madri. Perché la maternità in Italia resta un ostacolo al lavoro, Fondazione Feltrinelli, 2025. 

Servizi per l’infanzia insufficienti, congedi parentali squilibrati, soffitti di cristallo, segregazione occupazionale e forti divari territoriali: è questo intreccio di ostacoli che frena il futuro di migliaia di donne e rallenta l’Italia rispetto al resto d’Europa. L’estratto del libro che proponiamo racconta perché oggi l’Italia non è un Paese per madri — e cosa servirebbe per farla finalmente diventare tale. 

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La partecipazione femminile al lavoro

Negli ultimi decenni, la partecipazione femminile al lavoro in Italia ha conosciuto una trasformazione profonda e strutturale, segnando un progressivo superamento dei modelli tradizionali di genere che avevano storicamente relegato le donne a ruoli marginali nell’ambito produttivo.

Tale cambiamento si colloca in un contesto di espansione dell’istruzione femminile, di mutamenti nei modelli familiari e nella divisione dei ruoli domestici, e di una riconfigurazione del sistema economico sempre più orientato al settore terziario, fortemente attrattivo nei confronti dell’occupazione femminile. 

Nell’ambito di queste tendenze, tuttavia, le disuguaglianze di genere nel lavoro persistono, svantaggiando soprattutto le madri. Le donne, infatti, sperimentano una forte penalizzazione dopo la maternità, con una significativa riduzione dell’occupazione, carriere discontinue e concentrazione in settori a bassa retribuzione e scarse possibilità di promozione.

 

L’organizzazione familiare e quella lavorativa continuano a essere interdipendenti e profondamente segnate da logiche tradizionali che vedono la cura come una responsabilità femminile.
La carenza di servizi pubblici per l’infanzia e la rigidità delle imprese italiane nel garantire flessibilità lavorativa aggravano il problema, spingendo molte donne, specialmente quelle meno qualificate, all’inattività. 

Se, in passato, l’aumento dell’occupazione femminile sembrava ridurre i tassi di natalità, suggerendo una difficile conciliazione tra maternità e carriera, a partire dagli anni Novanta questo rapporto ha mostrato un’inversione in molti Paesi occidentali. In particolare, è emerso che i Paesi con alti tassi di occupazione femminile tendono anche a presentare tassi di fertilità più elevati.

Quelli del Mediterraneo, come l’Italia, sono invece tra i Paesi con i tassi di fertilità e occupazione femminile più bassi, mentre i Paesi scandinavi e anglosassoni hanno registrato tassi di fertilità relativamente alti e altrettanto elevati livelli di occupazione femminile. Questo cambiamento è stato attribuito all’introduzione di politiche per la conciliazione tra lavoro e famiglia, come il congedo parentale e i servizi di assistenza all’infanzia. 

Le politiche per la famiglia hanno così ridotto l’incompatibilità tra lavoro e maternità, favorendo l’occupazione femminile senza danneggiare i tassi di natalità. Sebbene il dibattito sulla direzione della causalità tra i due fattori sia stato acceso, le evidenze suggeriscono che le politiche di conciliazione siano fondamentali per mantenere l’equilibrio tra carriera e genitorialità. 

In un contesto europeo in rapida evoluzione, l’Italia emerge come un caso peculiare, con una tradizione di scarsa attenzione verso le politiche di conciliazione vita-lavoro, in particolare sotto il profilo dell’uguaglianza di genere. La letteratura ha evidenziato come queste politiche siano state storicamente un’area problematica, contraddistinta da investimenti insufficienti e da una struttura frammentata.

Tale quadro si inserisce in un modello di welfare familistico che ha delegato il peso delle cure familiari alle donne e alla rete familiare. Rispetto ad altri Paesi europei, inclusi quelli dell’area mediterranea, la spesa dedicata alla conciliazione in Italia è infatti rimasta relativamente bassa. 

La copertura dei servizi per l’infanzia continua a mantenere l’Italia indietro rispetto agli altri Paesi europei. Nel 2022, solo il 30,9 per cento dei bambini al di sotto dei tre anni risultava iscritto a tali servizi, ma di questi, solo il 20,1 per cento li frequentava per più di 30 ore settimanali. L’obiettivo definito a livello europeo del 45 per cento appare lontano a causa soprattutto di due principali distorsioni: una di natura reddituale, il cosiddetto “effetto Matteo”, e una territoriale, il “Matteo territoriale”.

Nel primo caso, sono soprattutto i figli delle persone più istruite e abbienti a frequentare gli asili nido; nel secondo, le aree che necessiterebbero maggiormente tali servizi – prima di tutto il Mezzogiorno – sono proprio quelle in cui l’offerta risulta più carente, con evidenti ripercussioni sulla parità di genere. 

Ma anche il sistema dei congedi parentali, pur essendo uno degli strumenti chiave per la conciliazione, è stato storicamente strutturato in modo da incentivare poco il coinvolgimento dei padri, rafforzando l’idea che la conciliazione sia una questione esclusivamente femminile.

Negli ultimi anni si registrano alcuni segnali di cambiamento, con riforme che potrebbero migliorare il quadro della conciliazione, ma il percorso rimane ancora incerto. 

Tali criticità si scontrano con le preferenze espresse dai cittadini italiani in merito alle politiche di conciliazione, che mostrano un ampio consenso verso il rafforzamento di tali misure.

In Italia, così come in molti altri Paesi europei, le politiche per la prima infanzia sono viste come un ambito di intervento prioritario, con una domanda crescente di interventi pubblici per supportare la conciliazione.

Ciò suggerirebbe la necessità di un approccio più integrato e inclusivo, in grado di rispondere alle esigenze di conciliazione delle famiglie, in particolare quelle più vulnerabili. E tuttavia si procede molto a rilento. 

Nell’ambito di queste criticità si inquadra il fenomeno delle dimissioni volontarie delle lavoratrici madri, soprattutto durante i primi tre anni di vita dei figli.

Le dimissioni volontarie rappresentano la decisione autonoma di un lavoratore di interrompere il rapporto di lavoro.

In Italia, proprio per le note difficoltà di conciliazione tra lavoro e cura che in particolar modo gravano sulle donne, quando a dimettersi sono genitori di figli piccoli, la legge prevede specifiche tutele per garantire la genuinità della scelta e prevenire abusi o pressioni indebite. 

Questo fenomeno è particolarmente rilevante nel nostro Paese. I dati più recenti evidenziano un aumento significativo delle dimissioni, in particolare tra le madri, ma anche un crescente impatto sui padri.

I rapporti annuali dell’Ispettorato del Lavoro, che il volume analizza, offrono uno sguardo approfondito sulle dinamiche di genere e sulle ragioni che spingono alla scelta delle dimissioni.

I dati mostrano una marcata differenza tra uomini e donne: le difficoltà nella conciliazione tra lavoro e cura dei figli rappresentano un motivo importante per le dimissioni delle madri, mentre per i padri restano marginali.

Un altro ostacolo importante riguarda le condizioni lavorative, come la rigidità degli orari, l’impossibilità del part-time o la distanza della sede di lavoro. 

Negli ultimi dieci anni è altresì emersa una crescita costante delle dimissioni per motivi legati alla mancanza di reti familiari di supporto, un segnale della centralità che il sistema di welfare italiano continua ad attribuire alle famiglie nella gestione della cura.

Il difforme impatto che le dimissioni volontarie hanno su madri e padri mette in luce come il congedo di paternità in Italia sia limitato e poco utilizzato, confermando la permanenza di una concezione della conciliazione come questione femminile e la distanza da una prassi consolidata che al contrario assuma la condivisione dei compiti di cura come obiettivo finale. 

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