L’economia è stata per troppo tempo considerata una questione tecnica, una disciplina arida, accessibile a pochi. Ma ormai è di tutta evidenza anche al grande pubblico che gli impatti delle scelte che si fanno (o che non si fanno) in ambito economico ricadono sull’intera sfera del vivere collettivo, dai legami sociali alle disuguaglianze fino alle scelte politiche che orientano il welfare, le infrastrutture, la tutela del lavoro e dei diritti.
L’economia è un’arena dove si incontrano e si scontrano interessi diversi.
Dove si contrattano nuovi equilibri di potere, come mostrano con il loro gigantismo le big tech della Silicon Valley.
Dietro la retorica della “mano invisibile” del mercato si è svolto un processo visibilissimo: un gigantesco trasferimento di ricchezza dalla base al vertice della piramide sociale. E non è accaduto per caso.è il frutto di una precisa scelta: quella della politica di ridursi ad un ruolo ancillare rispetto alle forze del mercato, che non sono altro che le forze dei più forti controllori di capitali sui mercati. Anche quella di non scegliere, di abdicare al proprio ruolo di garante del benessere collettivo, di illudersi che l’impatto del proprio ruolo potesse moderare inizialmente il mercato, è una scelta.
C’è da dire che lo Stato non è mai davvero scomparso e lo hanno ampiamente dimostrato gli interventi durante le molteplici crisi che abbiamo vissuto dal 2008 ad oggi, una su tutte la pandemia. La domanda che dobbiamo porci allora non è se lo Stato debba intervenire, ma come e per chi lo faccia. Può essere un motore di emancipazione o un ingranaggio di consolidamento del potere. Può costruire ponti o alzare muri.
“The Atlantic” ha tacciato alcune scelte dell’Amministrazione Trump di gestione “patrimonialista” dell’economia, dove la parola chiave è discrezione. Trump decide, i destini del pianeta seguono: un nuovo re planetario guidato dalle sue personali convenienze come da quelle dei propri amici, dei propri sponsor e delle proprie clientele.

Siamo di fronte ad un’economia dell’espropriazione dello spazio pubblico (a partire dallo Stato) da parte dei grandi privati, ormai rivendicata apertamente, con tanti saluti per la democrazia.
Ma è bene ricordare che il capitalismo nella sua fase attuale – predatorio, diseguale, insostenibile – non è un destino, bensì il risultato di scelte e quindi può essere trasformato da altre scelte. Ma serve la volontà di farlo. E prima ancora serve un pensiero critico che non si rassegni.
Serve una cittadinanza che torni a chiedere alla politica di essere all’altezza del suo nome: di avere la vocazione per costruire una casa comune e adeguata ai tempi e alle loro tempeste.
Il patto emerso dopo la Seconda Guerra Mondiale si fondava su un contesto che oggi non esiste più. Negli ultimi decenni lo spazio progressista si è limitato a guardare pezzi di economica sociale di mercato via via travolti dalle riforme neoliberali.
Se la politica – e in particolare la politica progressista – vuole governare i cambiamenti in atto, dalla transizione verde a quella digitale, in un contesto multipolare, dovrà assumere un ruolo propulsivo. Dovrà guardare anche oltre i confini dell’Occidente per trarre nuove lezioni economiche.

È possibile utilizzare le logiche di mercato al servizio di un progetto di sviluppo disegnato dalla politica per il benessere collettivo? È possibile trovare un nuovo patto tra capitale e lavoro, tra risorse e produzione, tra pubblico e privato, tra centri e periferie, tra Nord e Sud del mondo?
Saranno le risposte a queste domande a determinare il nostro futuro.
Tenendo fissi alcuni pilastri quali coesione sociale e territoriale, sostenibilità e inclusione.
L’economia, nel confronto con le forze sociali e politiche e con le esigenze dei cittadini, può contribuire a elaborare un pensiero critico, capace di andare oltre l’esistente e tradursi in paradigmi coerenti di politica pubblica.
Abdicare a questo progetto vorrebbe dire consegnarci ad un futuro distopico quanto inedito; è la sfida dalla quale dipende la qualità del nostro futuro, in particolare del continente che ancora su questi principi si basa, l’Europa.
