Milano ha bisogno di riflettere su se stessa. L’attivismo della sua amministrazione, il pluralismo dei suoi centri decisionali, la vitalità degli attori dell’economia globale, il dinamismo delle forze che dal basso la hanno sempre animata, non sono più sufficienti a garantire il successo della città: ciò che sembrava essere la cifra di quello che da più parti era stato definito “il modello Milano”.
Siamo forse arrivati alla chiusura di un ciclo, quello apertosi con Expo 2015, che aveva fatto uscire la città dal periodo grigio che la aveva identificata come la città dell’economia e del lavoro, ma anche della bassa qualità della vita. Dopo il 2015 Milano è inaspettatamente diventata “the place to be”: una città attrattiva per tutti, che riscopriva lo spazio pubblico, animato dalle mille iniziative, organizzate dall’alto e dal basso. Città dell’economia globale ma anche della prossimità. Diventata anche una delle prime mete del turismo urbano. Un modello che ha funzionato e che per lungo tempo ha trasformato la sfortuna del dover lavorare a Milano nella fortuna del vivere a Milano, per i giovani che hanno continuato ad arrivare per studiare, lavorare o semplicemente cercare di costruire il proprio futuro qui.
Il Covid è stato certamente una cesura dolorosa. Il Comune è stato capace di approntare tempestivamente un interessante piano di adattamento, che apriva alla possibilità di apprendere modalità più sostenibili e meno frenetiche di organizzare la vita urbana. Ma su molte cose siamo tornati indietro. Al rientro dal lock-down il traffico è tornato a soffocare la città, diversi i casi drammatici di ciclisti e pedoni morti in strada, hanno segnalato una competizione insana per lo spazio della strada. La nuova possibile relazione di Milano con la sua grande regione urbana, che durante la pandemia aveva fatto intravedere la possibilità di redistribuire tempi di vita e di lavoro, tra città centrale e aree esterne, abbassando la tensione della sua area centrale e restituendo urbanità al vasto hinterland, è stata presto negata. E’ tornata forte la preoccupazione per la sicurezza urbana, per i conflitti tra diversi utilizzatori della città, giovani e anziani, abitanti del centro e della periferia.
La tenda della studentessa davanti al Politecnico ha sollevato in un modo semplice, che ha raggiunto tutti, il problema della casa per i molti che non riescono ad acquistarla né possono pagare i canoni d’affitto richiesti da un mercato sempre più in tensione. Ha cominciato a farsi strada l’idea che Milano è una città solo per ricchi.
Poi le indagini della magistratura sull’urbanistica milanese sulla quale molti giornali si sono buttati, costruendo il clima di nuova tangentopoli, che naturalmente non è, ma che hanno spinto a riflettere su una politica urbanistica sempre più dipendente dalle scelte degli operatori privati. Anche a causa dei progressivi tagli alla finanza dei comuni.
E infine lo sgombero del Leoncavallo che ha segnato la fine di un altro tratto importante della città, quello del “dare spazio”, del sapere che l’innovazione, che ha sempre caratterizzato la città, nasce anche in luoghi come quello. Sullo sfondo il vento delle guerre, del Trumpismo e del populismo rampante che scoraggiano.
Insomma la città sembra ferita per diverse ragioni. E ciò che dobbiamo fare come cittadini e istituzioni culturali è districare la matassa dei problemi emersi a partire dalla constatazione che non è più sufficiente lasciare andare le cose per il loro corso, confidando nella capacità di adattamento. E’ necessario evitare che la paralisi e la crisi dello sviluppo immobiliare schiaccino, anche simbolicamente, la città della prossimità, dell’attivismo civico che continua invece ad essere una importantissima risorsa per la città.
Perché Milano è molto altro, ha problemi da affrontare ma ha straordinarie risorse. Deve misurarsi oggi con ciò che fino a ieri non sembrava necessario, grazie alla sua poliarchia: deve trovare oggi il coraggio di pensare ad un progetto condiviso, dando ascolto agli attori che in posizioni diverse, in alto e in basso, hanno continuato a lavorare ma che, senza un riconoscimento reciproco, rischiano di girare a vuoto, di infragilirsi e di concentrarsi sul proprio ambito rinunciando ad essere costruttori di una politica urbana.
Ho letto di recente un libro intitolato “Maestro”, sottotitolo “A surprising story about leading by listening” (R. Nierenberg 2009).
Parla di un direttore d’orchestra che scopre che per ottenere sinfonie in perfetta armonia non deve imporre il proprio volere agli orchestrali, ma piuttosto consentire loro di ascoltarsi reciprocamente, fino a trovare il migliore equilibrio e la migliore consonanza. Milano non ha mai avuto bisogno di avere un direttore d’orchestra o una sinfonia scritta da qualcuno in cui ciascuno abbia la sua parte da eseguire.
Ma forse può provare a disegnare il proprio futuro a partire dall’ascolto reciproco delle molte sue voci.
