Nessuno dei protagonisti della Liberazione pensò che essa fosse stata realizzata il 25 aprile 1945.
Non solo perché ci sarebbe voluta un’altra settimana per completare la liberazione dell’Italia settentrionale; ma anche per la convinzione, condivisa da gran parte del variegato fronte antifascista, che non vi sarebbe stata vera sconfitta del fascismo se non si fossero estirpate le sue eredità e, più in profondità, le sue cause e presupposti, radicati nella struttura dello Stato e nella società italiana. Ciò significava anche costruire una democrazia più vasta, più diffusa e perciò più solida della vecchia democrazia liberale: ovvero una democrazia fatta di una pluralità di forme di partecipazione dei cittadini alla vita dello stato (e, finalmente, delle cittadine), così come di partecipazione alla vita dell’impresa.
Questa istanza partecipativa era stata all’ordine del giorno del primo dopoguerra: il fascismo l’aveva scimmiottata a parole, in chiave nazionalista di patto dei produttori, ma combattuta nei fatti, con plauso delle classi dirigenti liberali e industriali.
Nel secondo dopoguerra, essa poteva contare su diversi strumenti, ciascuno con la sua storia: le Commissioni Interne, organi della rappresentanza in fabbrica, abolite nel 1925 dal patto di Palazzo Vidoni e resuscitate dal patto tra Buozzi e Confindustria nel settembre 1943; i Consigli di Gestione, figli del momento farsesco in cui la RSI lanciava proclami di socializzazione delle imprese mentre le metteva a disposizione dell’alleato nazista; i Comitati di Liberazione Nazionale, presenti anche a livello aziendale.
Allargare la democrazia per superare le matrici del fascismo
Rodolfo Morandi, socialista, presidente del CLN Alta Italia all’aprile 1945, fu un sostenitore dell’idea di fare dei CLN organi di sovranità popolare, generalizzandoli in tutto il paese, dal Nord al Sud: «Si illude chi crede di salvare il Paese dal caos e dall’anarchia senza la partecipazione del popolo all’esercizio del potere».
La forza dei CLN stava nel fatto che «hanno assunto funzioni effettive nella vita pubblica e poggiano su una base di masse, […] si sono estesi nel basso compenetrandosi dei bisogni e degli interessi delle popolazioni», anche grazie alla difesa delle fabbriche dai nazisti, all’educazione di fuoco alle responsabilità della produzione (intervento al Congresso dei CLN della Provincia di Milano, 5 agosto 1945).
Non si trattava solo di cointeressare i lavoratori all’impresa, ciò che aveva un rischio di ritorno corporativo («legare in innaturale connubio gli interessi delle maestranze a quelli padronali»). Per Morandi, anzi, a partire dal livello aziendale la classe lavoratrice doveva partecipare «alla gestione dell’industria nel suo complesso» per disegnare una «generale disciplina della produzione» che rispondesse ai bisogni della collettività (I Consigli di gestione, 17 novembre 1946).
È dunque all’interno dell’esigenza di allargare la democrazia per superare non solo il fascismo, ma le sue matrici, che nasce l’art. 46 della Costituzione, secondo cui «ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione» la Repubblica «riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende». Collocato nel Titolo 111, Rapporti economici, era in diretto rapporto con l’art. 41, secondo cui la libera iniziativa economica privata non poteva «svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla salute, all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana».
Un campo di tensioni
Affermare un principio significava in realtà tracciare un campo di tensioni. Fu uno dei campi su cui avvenne la rottura della coalizione antifascista e del sindacato unitario, intrecciandosi con il decollo della guerra fredda e con le lotte contro le produzioni di armamenti. E su questo campo si giocarono guerre di posizione e di movimento del conflitto sociale, dall’alto e dal basso, in una democrazia eternamente in costruzione, in un modello di sviluppo economico strettamente legato a rapporti di lavoro paternalistici e autoritari.
Più che a livello legislativo, l’istanza partecipativa si è espressa a quello contrattuale, dove si è sancito il diritto di informazione e consultazione del sindacato.
Due spinte divergenti impongono oggi il tema con nuova forza. Da una parte, la proposta di legge sulla «partecipazione dei lavoratori al capitale, alla gestione e ai risultati dell’impresa», promossa dalla Cisl e (dopo drastico ridimensionamento nel passaggio dalle Commissioni Lavoro e Finanza) approvata a marzo alla Camera: presentata come attuazione dell’art. 46, ma criticata dalle opposizioni e dalla Cgil in quanto peggiorativa rispetto ai diritti stabiliti per via contrattuale, fino a presentare il rischio di mortificare in effetti la contrattazione collettiva – il rischio, si direbbe con Morandi, di un cointeressamento corporativo.
Dall’altra parte, l’esperienza dell’ormai ex GKN di Campi Bisenzio. Se è anche sulla base della violazione dei diritti sindacali d’informazione e consultazione che i licenziamenti sono stati a più riprese dichiarati illegittimi, la vertenza ha presto aperto prospettive più vaste, al di là della singola chiusura aziendale: di politica industriale, di giustizia climatica e sociale, di qualità dello sviluppo.
Prospettive che appaiono ancora più lungimiranti (ossia più urgenti) in una fase in cui, come soluzione al ristagno economico italiano ed europeo, torna prepotentemente di moda il keynesismo militare – o la sua versione povera, di consumi, diritti, idee. È un miraggio che pone difficoltà anche al movimento sindacale, stretto tra la missione di tutelare l’occupazione e la necessità di rielaborare idee, e strumenti per farle sentire, per imprimere indirizzi produttivi rispondenti coerenti (per riecheggiare sempre Morandi) ai bisogni e agli interessi della collettività.