I primi bombardamenti…
Non erano neanche le 6.00 quando quella mattina ho iniziato a fare l’ennesimo giro di controllo dell’ospedale. La primavera era incominciata da un po’ ormai e i giardini dimostravano tutto il loro splendore. Gerani, rose ed alberi di melograno in fiore spiccavano tra il verde delle aiuole d’erba che i giardinieri curano con ossessione.
L’aria di Kabul era frizzante e ancora tersa, prima di diventare quasi irrespirabile quando da lì a poco, migliaia di persone si sarebbero riversate in strada ad affaccendarsi nelle proprie attività quotidiane, intasando le strade e ogni angolo della città. Finalmente c’era pace nei reparti di degenza e nei corridoi esterni che percorrevano tutta la struttura.
Dopo una notte frenetica trascorsa ad arginare una nuova ondata di feriti arrivati dopo la solita crudele esplosione avvenuta nel centro città, ora regnava una calma surreale, tanto da farmi pensare che il caos di poche ore passate fosse solo un lontano ricordo.
L’ospedale traboccava di feriti, per lo più civili inconsapevoli che si erano trovati nel posto sbagliato, al momento sbagliato. Un solo istante, aveva cambiato e segnato la loro vita a venire. In poche ore sarebbe iniziato il giro visita e avremmo cercato di fare il piano di cure dei pazienti ricoverati, sperando di poter dimettere qualcuno e fare spazio per i prossimi che sicuramente sarebbero arrivati.
Oramai l’Afghanistan era disseminato di focolai di combattimenti sempre più numerosi. Le forze governative regolari e i Talebani si ammazzavano quotidianamente per metri di territorio, stringendo in una morsa di paura e violenza la popolazione civile che ne paga il prezzo più alto.
Gli ospedali di Emergency
Sono la cartina torna sole di questa situazione, con i letti occupati da persone che nel tentativo di vivere si trovavano a fare i conti con la morte e la sofferenza. Mentre mi arrovello il cervello cercando di organizzare la logistica delle ore successive, mi accorgo che su una panchina, più defilata delle altre, all’ombra di un melograno, Hedayat, il nostro chirurgo, sta fumando una sigaretta e sorseggiando un te`.
È un’immagine inconsueta, non ama farsi vedere fumare e di solito lo fa in qualche angolo remoto dell’ospedale. Mi incuriosisce anche il suo aspetto trasandato, il camice bianco stropicciato e indossato al contrario, la mascherina verde ancora al collo e i capelli arruffati e sparati in aria. Ha lo sguardo vacuo, che non cambia nonostante i frequenti sorsi di tè e le boccate di sigaretta.
Mi avvicino ma lui non si accorge di me nemmeno quando gli sono davanti. Solo nel momento in cui apro bocca accenna una timida reazione senza sorpresa o emozioni evidenti.
E se fosse l’ultima volta?
“Hey, come stai? Sei stanco?”, gli chiedo.
Spegne la sigaretta beve l’ultimo sorso di tè e si volta verso di me iniziando a parlare con il fumo che ancora gli esce dalla bocca.
“Sai…quando ieri sera mi avete chiamato per venire in ospedale a dare una mano, stavo litigando con mia moglie e sono uscito di casa ancora arrabbiato senza poter sistemare” mi dice e continua: “da allora non l’ho più sentita, non riesco a chiamarla, la linea nella mia zona non funziona da diverse ore”.
“Ma si dai, che vuoi che sia, io litigo con la mia compagna ogni dieci minuti, è normale in una coppia, vedrai che sistemerai tutto appena arrivato a casa, fra poco puoi andartene”, gli dico sorridendo.
Mi guarda dritto negli occhi, lo sguardo non è più perso nel vuoto, ma intenso e carico di emozioni, bagnato dalle lacrime che non vogliono scendere e mi dice: “è proprio questo il punto, io non so se tornerò a casa vivo oggi e pensare che l’ultimo ricordo che mia moglie avrà di me possa essere la nostra lite, mi distrugge”.
Rimango interdetto e mi vergogno della mia superficialità, non so bene come reagire a quelle parole e peggioro il momento blaterando una frase di circostanza: “vedrai che andrà tutto bene”. Mentre lo dico appoggio una mano sulla sua spalla, ma Hedayat non mi sta più ascoltando, assorto com’è nei suoi pensieri.
Me ne vado mesto verso l’ufficio congedandomi da quella conversazione senza troppi convenevoli, quasi scappando. Una volta dentro metto su un caffè e mentre aspetto, mi accendo una sigaretta. Ripenso alle parole appena sentite e mi convinco che il peggio di vivere in un paese in guerra non siano la mancanza di servizi, la negazione di ogni diritto o le ingiustizie, ma semplicemente cercare di vivere il proprio quotidiano consapevole che ogni momento potrebbe essere l’ultimo, logorandosi l’anima giorno dopo giorno senza sapere mai quando arriverà la fine.
Hedayat intanto sta salendo sulla macchina che lo porterà a casa.
Io spero solo che possa arrivare sano e salvo.