La trasformazione del dibattito pubblico negli ultimi anni rivela un paradosso significativo: mentre le tecnologie digitali hanno democratizzato l’accesso all’arena pubblica come mai prima d’ora, la qualità del discorso democratico si è progressivamente deteriorata.
L’ampliamento dello spazio comunicativo, che avrebbe potuto moltiplicare le prospettive e arricchire il confronto, ha invece prodotto un ambiente in cui la ricerca della visibilità immediata prevale sulla costruzione paziente degli argomenti.
In questo ecosistema accelerato, la ricerca del consenso tende sempre meno a fondarsi sul confronto razionale e sempre più sulla mobilitazione di emozioni intense, sulla costruzione di bersagli politici, sulla cattura rapida dell’attenzione.

Semplificare per odiare
La competenza e l’argomentazione sensata, un tempo risorse centrali del discorso pubblico, cedono il passo a contenuti che garantiscono reazioni e condivisioni istantanee: non è il dissenso in sé a essere diventato più radicale, ma sono le regole stesse del confronto politico a essersi trasformate.
I toni agguerriti e le contrapposizioni nette ottengono risonanza, mentre le posizioni più complesse e articolate si perdono nel flusso continuo di stimoli. L’uso di forme di inciviltà e il ricorso a linguaggi d’odio cessano così di essere deviazioni episodiche e diventano strumenti sistematici nella competizione per l’attenzione pubblica.
In questo contesto, vi è da dire che le piattaforme digitali non assistono passivamente a questa deriva, ma in quanto dispositivi che modellano l’informazione – determinandone forma, gerarchia e visibilità – la alimentano attraverso i propri meccanismi di funzionamento.
Gli algoritmi che governano la circolazione dei contenuti rispondono a una logica tanto semplice quanto implacabile: premiano ciò che suscita emozioni forti – indignazione, allarme, ostilità – ampliandone la portata attraverso condivisioni e commenti.
Il risultato è un circolo vizioso in cui i contenuti più divisivi dominano uno spazio pubblico frammentato e polarizzato, mentre le analisi complesse vengono marginalizzate perché meno compatibili con la rapidità con cui si formano orientamenti emotivi e appartenenze.
L’opinione pubblica non è più una massa da persuadere, ma una moltitudine segmentata, governata da logiche algoritmiche personalizzate (si veda Boccia Artieri, 2025, Sfiduciati, Fondazione Feltrinelli).

Semplificazione contro complessità
Di conseguenza, si consolida quella che potremmo definire una logica del “consenso affettivo”, dove la competizione politica si sposta dal confronto sui temi alla mobilitazione emotiva, dalla dialettica delle idee alla messa in scena dello scontro e del risentimento.
La semplificazione binaria dei messaggi politici rappresenta solo la superficie di una trasformazione più profonda: la complessità in sé diventa sospetta, letta come un artificio delle élite, mentre volgarità e rozzezza espressiva vengono assunte come segni di autenticità.
La costruzione dell’antagonismo non è più un effetto collaterale della competizione politica, ma ne costituisce l’architrave.
L’inciviltà diventa così uno strumento sistematico di costruzione del consenso fondato su una politica identitaria, che non mira più a persuadere l’elettorato nel suo complesso, ma ad attivare segmenti specifici mediante codici comunicativi immediatamente riconoscibili.
Il linguaggio trasgressivo, l’insulto calcolato, la violazione ostentata delle norme di rispetto reciproco funzionano come marcatori d’identità: chi li usa segnala la propria appartenenza a un “noi” costruito in opposizione alle norme comunicative dell’establishment.

Riconoscersi contro il politicamente corretto
In questo scenario, l’inciviltà opera come meccanismo di riconoscimento reciproco: il leader che insulta non si limita ad attaccare un avversario, ma mette in scena un’identità condivisa con quella parte di elettorato che interpreta la brutalità verbale come prova di vicinanza e consonanza emotiva; in breve, di appartenenza a un campo culturale contrapposto alle élite “politically correct”, in un processo che viene ulteriormente amplificato dalle affordances digitali che prediligono contenuti ad alta intensità emotiva.
Il risultato è un dibattito pubblico che perde progressivamente la capacità di riconoscere l’altro come interlocutore legittimo.
La politica abbandona così la sua funzione deliberativa – elaborare soluzioni collettive e condivise mediante il confronto – per assumere una dimensione performativa, di teatralizzazione del conflitto.
In questo clima, la soglia di ciò che consideriamo inaccettabile si abbassa progressivamente fino a normalizzare persino l’hate speech, forma estrema di inciviltà che trasforma il dissenso in odio.
Quando il consenso viene costruito sulla radicalizzazione del conflitto, il risultato sono società sempre più frammentate e difficilmente governabili, dove persino la vittoria elettorale non si traduce in capacità di governo effettivo, ma solo nell’occupazione temporanea di posizioni sempre più contestate e precarie, in un conflitto diventato ormai permanente.
