Milano città esclusiva: dal paradiso edilizio al paradiso fiscale
Da due anni il settore dell’edilizia a Milano è oggetto di inchieste: una rete di contatti tra l’amministrazione pubblica e il privato, costituirebbe, secondo la Procura, un «sistema» che avrebbe favorito in vari modi la concessione di permessi edilizi in violazione delle normative a tutela del paesaggio, per fare speculazione attraverso grandi progetti immobiliari. L’inchiesta di Irpi media “Città in affitto” ricostruisce le grandi aree di interesse edilizio della città e affronta la connessione tra sviluppo della città e speculazione edilizia che trasforma anche il tessuto sociale. Il tema pone un interrogativo politico: “Il denaro speso dal pubblico non ha alcun effetto sul contenimento delle sperequazioni tra ricchi e poveri, ma diventa solo un catalizzatore di nuovi grandi capitali privati?”
Pubblichiamo un estratto (pag. ) del libro “Città in affitto” (Laterza, 2025) di Gessi White, un ‘inchiesta corale del collettivo giornalistico Irpi media, per gentile concessione degli autori e dell’Editore.

Il primo caso al centro delle indagini è stato in piazza Aspromonte, dove è sorta una palazzina di sette piani in mezzo a un cortile. Gli inquilini dei palazzi esistenti da un giorno all’altro hanno visto l’orizzonte occupato dallo scheletro di un edificio di sette piani laddove ce n’era uno alto la metà. Il condominio mutava in alveare con arnie sempre più strette l’una sull’altra. Hidden Garden è il nome del progetto, ora concluso. L’indagine è cominciata nel 2022 e da allora ne sono seguite tante e tante altre. Cambiano nome e costruttore, cambiano anche le distanze dal centro, ma non il concept proposto dai siti di vendita delle nuove abitazioni, tutte appollaiate su qualche nuova torre, anche per occupare meno terra. Nuove costruzioni che promettono di rivitalizzare edifici abbandonati, aree inutilizzate oppure da bonificare. È così da anni.
Quadrante est, distanza dal Duomo: 6,5 chilometri circa. “Vivere in Park Towers significa dare forma ai propri desideri. Tutti gli appartamenti, infatti, disponibili in diversi tagli e metrature, sono dotati di finiture di pregio e sono personalizzabili sulla base delle tue esigenze.” Il motto è: “La tua casa affacciata sul parco”. I rendering delle due torri e del terzo edificio hanno quasi tutti i piani colorati di blu scuro, colore che rappresenta gli appartamenti venduti. Su un portale immobiliare c’è un annuncio per la vendita di un trilocale da 130 metri quadri e terrazzo: 670mila euro. Via Crescenzago è in quella fetta di periferia tagliata fuori dal corpo della città dalla ferrovia. Al civico 105, prima degli scheletri delle Park Towers, c’era un polo della logistica. Feltre, il quartiere dove si trova, è un reticolo di strade che un tempo furono fabbriche, cascine e abitazioni popolari. Quelli che pensano a Milano come uno specchio di New York, già la definiscono la Midtown milanese in virtù di due caratteristiche dell’area: la prima, anche qui il tessuto urbano s’infrange su un parco, il parco Lambro, il Central Park dove i giovani hanno realizzato una loro Woodstock nel 1976; la seconda, nell’arco di 400 metri è previsto lo sviluppo di sei progetti, una densità che regge il paragone con la Grande Mela.
Quadrante nord-est, 5,1 chilometri dal Duomo, circa. “Torre Milano è la torre residenziale di chi ama l’emozione di stare a un passo dal cielo, ma in fondo crede che non ci sia nulla di più straordinario della quotidianità.” “La città ti porta in alto”, dice il motto: “Ha un doppio significato. Da un lato celebra l’altezza dell’edificio, che con i suoi ventiquattro piani è oggi uno dei landmark della città. Dall’altro rende protagonista chi ci abita, che gode di spazi e servizi di alto livello”. Affitto di un trilocale: 2.890 al mese con l’aggiunta di 500 euro al mese di spese condominiali per la Skyline home al sedicesimo piano, 81 metri quadri. Prima di Torre Milano, lì c’erano delle palazzine biancastre, un tempo sede di uffici amministrativi dell’assessorato alla Sanità di Regione Lombardia. Un anno prima dell’inizio dell’Expo del 2015, i manifestanti NoExpo le avevano occupate per una tre giorni di dibattiti e concerti. “Tutta nostra la città” recitava un murales fuori dall’edificio, retaggio della febbre della protesta. Dopo quel sussulto, la via è tornata nel dimenticatoio della cronaca, alla voce “edifici in stato di abbandono”. Sono rigenerazioni o nuove costruzioni? Il dilemma, politico prima che giudiziario, è tutto qui. Questi interventi restituiscono pezzi di città oppure, costruendo altro, li sottraggono?
Al di là di ogni valutazione giuridica, si può dire che il Modello Milano abbia fatto della città un “paradiso edilizio”, la versione immobiliare del più celebre “paradiso fiscale”. Quest’ultima espressione indica luoghi dove la tassazione è concepita per attrarre gli ultraricchi e le multinazionali in funzione di reciproco vantaggio. Chi trasferisce la propria residenza fiscale pagherà poco, ma il Paese di trasferimento – luoghi come le Isole Vergini Britanniche, Jersey, gli Emirati Arabi Uniti, il Liechtenstein, il Principato di Monaco, i Paesi Bassi, la Svizzera e decine di altri stati, spesso di piccole dimensioni – avrà un gettito in più, che i suoi cittadini non potrebbero mai fornire. A rendere la magia possibile è un esercito di funzionari pubblici e di professionisti: impiegati nel settore terziario, che diventa così una voce chiave nel Pil nazionale. Un “paradiso edilizio” non è un Paese ma una città. Come teorizzato da diversi studiosi a partire dagli anni Novanta, la competizione contemporanea è tra global cities. Quelle che appartengono ai “paradisi edilizi” richiedono oneri di urbanizzazione bassi e hanno il proprio esercito di funzionari e professionisti per attrarre capitali e investitori, come a Milano, dove gli oneri di urbanizzazione sono rimasti bloccati fino al 2023, per 15 anni16, periodo durante il quale la burocrazia ha velocizzato le pratiche e le amministrazioni locali hanno sempre trovato nuovi modi e formule per continuare a far costruire. I “paradisi” sono luoghi di “capitalismo perfetto”, senza alcun freno, e devono la loro fortuna al fatto che qualcuno riceve meno di quanto sarebbe dovuto. I paradisi fiscali, infatti, devono il loro benessere all’ammanco prodotto all’erario dei Paesi da cui si trasferiscono i grandi investitori, che siano società o individui. Paesi dove si produce, si risiede, si vive, ma non si pagano le tasse perché sconveniente. Sfruttando le pieghe della libertà d’impresa, i grandi contribuenti dei paradisi fiscali si fanno predisporre da professionisti infrastrutture societarie che permettono di spostare capitali dove si risparmia di più. I paradisi edilizi, dal canto loro, devono lo straordinario accumulo di cantieri al fatto che altre città vengono lasciate indietro.
Non solo nella competizione internazionale, ma anche all’interno dei relativi Paesi ci saranno altre città dove non si investe perché non reggono il confronto, non sono abbastanza attrattive, e dunque non ricevono né fondi pubblici né fondi privati.
Paradisi fiscali e paradisi edilizi si contendono un numero ristretto di contribuenti e investitori. Per quanto paghino poco, i loro contributi fanno comunque la differenza: è questo l’aspetto paradossale della faccenda. Quelli che secondo la procura erano oneri di urbanizzazione troppo bassi hanno consentito al Comune di Milano di incassare la cifra record di circa 200 milioni di euro nel 2023. E proprio le inchieste aperte per il danno erariale potrebbero trasformarsi – ha annunciato con preoccupazione Giuseppe Sala – in una fuga di capitali e una perdita d’incassi sugli oneri, quindi alla fine in un taglio delle spese. Scenari Immobiliari ha calcolato 38 miliardi di euro a rischio dal 2024 al 2035. Questa situazione ha spaccato la città, divisa tra professionisti che vogliono uscire dall’impasse e comitati cittadini che, insieme ad altre voci della società civile, sperano in una rottura del vecchio paradigma del “paradiso edilizio”.
Si discute di cos’è bello, di cos’è decoro, di cosa significa riqualificare uno spazio vuoto, occupato oppure solo lasciato a marcire con il tempo. La tesi di chi è critico è che l’urbanistica milanese sia diventata un gioco di privati, dove il pubblico non è più in grado di orientare le decisioni. Il denaro speso dal pubblico non ha alcun effetto sul contenimento delle sperequazioni tra ricchi e poveri, ma diventa solo un catalizzatore di nuovi grandi capitali privati?
“Rigenerare piccole e medie città: nuove politiche per comunità in cambiamento”
Un piccolo estratto dal libro “Città possibile”, frutto di un percorso condiviso tra le realtà che compongono l’Alleanza per le transizioni giuste: amministrazioni locali, organizzazioni del terzo settore, reti civiche, attivisti e ricercatori.

Le nuove forme di povertà, come risultato diretto di modelli di sviluppo sbilanciati, si manifestano in modo particolarmente drammatico nei territori marginali, che siano aree rurali, piccole e medie città o quartieri periferici delle città più grandi: l’esclusione diventa disoccupazione strutturale e perdita di accesso a istruzione, sanità e cultura. Le comunità si sentono inascoltate, i servizi pubblici sono sempre più sotto stress, le scuole come le strutture sanitarie, ed emergono in maniera frequente risentimento e disillusione.
A pagare le conseguenze sono soprattutto le fasce più deboli della società: per questo, in tali contesti, diventa centrale il concetto di “transizione giusta”, emerso la prima volta negli anni Ottanta del Novecento, quando i sindacati statunitensi lo utilizzarono per proteggere i lavoratori colpiti dalle nuove norme sull’inquinamento dell’acqua e dell’aria. A partire da queste considerazioni è nata l’Alleanza per le Transizioni Giuste, un percorso ambizioso ma necessario, per connettere chi nei territori sta affrontando le grandi transizioni del nostro tempo. Lo scopo è stare accanto a chi amministra, a chi fa impresa o attivismo, al mondo della ricerca, dei media e dei sindacati. Un’alleanza di persone e realtà che hanno in comune due cose: agiscono nella prossimità, dove istituzioni e comunità sono a contatto, e si attivano per il bene comune e non per accumulare risorse.
Piccole e medie città al centro del cambiamento
Le diverse attività dell’Alleanza hanno fatto emergere trasversalmente una forte tensione verso le piccole e medie città, definite anche come territori di mezzo tra le città maggiori e le aree interne e meno popolate del paese. Interpretando questa considerazione in senso ampio si potrebbe dire che, attraverso i lavori dell’Alleanza, ha preso voce chi solitamente non ne ha: è come se, in interi territori che possiamo definire “di provincia”, emergessero le rivendicazioni di chi non ha rappresentanza politica, intesa nel suo significato più ampio. In altre parole, tra l’immaginario delle metropoli e quello dei borghi, i territori di provincia restano spesso privi di rappresentanza e, ancor più, di una visione di futuro.
Le città piccole e medie si trovano di fronte a un paradosso. Da una parte i limiti: non possono sfruttare pienamente le economie di agglomerazione delle grandi città (come aeroporti internazionali o servizi professionali iperspecializzati); spesso mancano di un’identità forte a livello sovralocale, di una visione strategica chiara e di competenze specializzate nelle amministrazioni per sviluppare progetti urbani innovativi; la mobilità è ancora eccessivamente auto-centrica, a causa della dispersione insediativa e di reti di trasporto pubblico meno efficienti e capillari di quelle delle città più grandi e più dense. Dall’altra importanti vantaggi e opportunità: molte godono di un’economia urbana solida, spesso grazie alla presenza di importanti sedi universitarie che generano vivacità intellettuale, cultura, innovazione e attrattività; le dimensioni più contenute facilitano la formazione di capitale sociale e la cooperazione pubblico-privato; possono assorbire e recuperare più velocemente gli impatti negativi delle crisi economiche e sviluppare piani strategici con creatività, superando le limitazioni dimensionali.
Le sfide poste dal capitalismo delle reti e delle piattaforme digitali sono molteplici: dalla turisticizzazione, spesso veicolata da piattaforme globali, alla crescita delle industrie riproduttive del capitale umano, come formazione e salute; dalla crisi ecologica che investe le reti di coesione (acqua, energia, trasporti) a un mercato immobiliare trainato dall’attrattività turistica e universitaria. Di fronte a questi scenari, la soluzione non è imitare le metropoli, ma rafforzare le proprie specificità e affrontare le contraddizioni emergenti. È urgente una nuova stagione di investimenti per una rigenerazione delle infrastrutture civiche e la creazione di nuove reti di gestione dei flussi. Seguendo l’approccio place-based della Strategia Nazionale per le Aree Interne, il futuro delle città piccole e medie, ma anche delle aree interne e marginali, risiede nella capacità di ridefinire gli orizzonti delle politiche locali e di elaborare nuove visioni strategiche di territorio, in grado di valorizzare le connessioni interne ed esterne e di generare nuovi beni comuni.
Ripercorrendo le più rilevanti politiche di sviluppo locale del passato, emerge come questa dinamica non si sia quasi mai realizzata, contribuendo a un progressivo depotenziamento dei territori di provincia. Si tratta di inquadrare una «metamorfosi» che può essere guidata anche da fondazioni, università, musei, rappresentanze d’impresa e altri attori capaci di coalizzarsi attorno a sfide comuni.
L’obiettivo è rendere i territori più resilienti e pronti ad affrontare la transizione ecologica e quella digitale, attraverso una visione basata sulla cooperazione e la coesione sociale.
