Come le infrastrutture digitali pubbliche rafforzano il potere delle Big Tech 


Articolo tratto dal N. 51 di I nuovi oligarchi digitali Immagine copertina della newsletter

Servizi come l’identità digitale o le piattaforme per i pagamenti elettronici si stanno diffondendo a livello globale, facilitando sia gli scambi economici sia i rapporti con la Pubblica Amministrazione. Tuttavia, queste piattaforme – note come infrastrutture digitali pubbliche – sono spesso controllate da un ristretto gruppo di corporation Big Tech, come Microsoft e Google. I dati raccolti attraverso tali infrastrutture consentono a queste aziende di esercitare un potere sempre più pervasivo all’interno degli Stati e sulle loro economie. In questa prospettiva emerge la crescente necessità, per l’attore pubblico, di riaffermare il controllo su quello che può essere definito un bene pubblico irrinunciabile: la capacità dello Stato di delimitare e regolare la raccolta dei dati pubblici.

Coloro che decidono cosa viene misurato – e cosa non viene misurato – possono esercitare una relazione di potere: il potere di plasmare le nostre memorie e le nostre azioni. Ciò che viene misurato è ciò che conta, ciò che dovrà essere ricordato e usato. Il resto può essere dimenticato.

Un tempo, Gli Stati costituivano i principali agenti nella misurazione e nella registrazione universale. Erano responsabili di rendere le cose leggibili raccogliendo ed elaborando informazioni (Desrosières, 1993). Lo stesso termine “statistica” deriva dalla parola “Stato” e in origine si riferiva a “la descrizione e il confronto degli Stati attraverso dati quantificabili” (Bruneau, 2022, p. 93). Per gran parte della loro storia, gli Stati moderni sono stati l’autorità ultima su ciò che poteva e doveva essere contabilizzato.

Oggi, coloro che hanno la capacità universale di creare dati e quindi di misurare sono soprattutto un pugno di grandi corporation tecnologiche. Ciò significa anche che l’accesso alla misurazione e alle successive classificazioni, la capacità di creare i dataset più estesi e di poter consultare sia i dati grezzi che le loro successive elaborazioni, sono stati privatizzati.

Gli effetti di questa privatizzazione globale si fanno sentire anche sugli Stati. Gli Stati sono diventati a loro volta dipendenti dalle tecnologie digitali delle Big Tech per elaborare dati utilizzati nell’esercizio di quella che può essere vista come una forma limitata di governo, nella misura in cui si affidano a tecnologie opache per governare. Un segno concreto di questa subordinazione si osserva quando assistiamo alla spinta globale verso ciò che è stato definito, in modo fuorviante, “infrastruttura pubblica digitale” (DPI).

Come diventare dipendenti dai cloud delle Big Tech 

La Fondazione Gates presenta il concetto di DPI all’interno di un sito dedicato affermando che: “Quando il COVID-19 ha accelerato la trasformazione digitale a livello globale, ha messo in evidenza la differenza tra un’infrastruttura digitale solida e una debole. I Paesi hanno una finestra temporale ristretta per assicurarsi di avere reti digitali in grado di offrire in modo sicuro ed efficiente opportunità economiche e servizi sociali a tutti i residenti. Questa è l’infrastruttura pubblica digitale.”

Questa citazione trasmette in modo fuorviante l’impressione che il DPI sia la vera e propria infrastruttura fisica alla base dei servizi digitali, associando il DPI ai cavi sottomarini per la trasmissione dei dati, satelliti e data center. In realtà, DPI non significa nulla di tutto ciò. Si riferisce invece a tre piattaforme digitali rese disponibili dagli Stati a tutti i cittadini. In concreto, queste sono: l’identità digitale, un servizio di pagamenti elettronici e una piattaforma di scambio di dati. Usando l’idea di infrastruttura, chi ha coniato il termine DPI ha contribuito a creare, nel settore pubblico e tra i cittadini, l’idea che il DPI sia un bene pubblico digitale. Non sorprende quindi che gli Stati di tutto il mondo abbiano aderito alla promessa del DPI.

Chi ha venduto, principalmente, questa promessa è stato il fondatore di Microsoft, Bill Gates. In un discorso pronunciato in India il 16 novembre 2016, Bill Gates lodò la “base digitale di livello mondiale” dell’India, facendo diretto riferimento alle tre piattaforme. Gates descrisse il numero di identità univoca Aadhaar come “qualcosa che sarà alla base di tutti i vostri sistemi digitali, che si tratti di banche, pagamenti fiscali, tracciamento delle cartelle cliniche”. E proseguì affermando che “l’infrastruttura di pagamenti unificata, lanciata pochi mesi fa, è un altro elemento chiave per far funzionare tutto questo.”1
Perché Bill Gates era così interessato a promuovere le piattaforme che sarebbero poi diventate note come DPI? Se sono gli Stati, in ultima analisi, a fornire le tre piattaforme sotto l’etichetta DPI, chi fornisce l’infrastruttura digitale fisica necessaria per far funzionare quelle piattaforme, archiviare ed elaborare i relativi dati? A livello globale, l’infrastruttura digitale fisica – data center, cavi e satelliti – è detenuta da un numero molto limitato di Big Tech. Tra queste spicca la Microsoft di Bill Gates. Insieme ad Amazon e Google, queste tre giganti statunitensi detengono il 65% del mercato globale del cloud computing. Aggiungendo Meta, queste quattro Big Tech possiedono più della metà della capacità mondiale di cavi sottomarini e, nel 2021, utilizzavano il 69% della larghezza di banda globale (Telegeography, 2023). Mentre queste corporation controllano l’infrastruttura fisica terrestre e sottomarina, il cielo sta diventando proprietà privata di SpaceX di Elon Musk. All’8 settembre 2025 erano in orbita 8.393 satelliti Starlink.

Ma la ragione per cui Bill Gates è così entusiasta del DPI non riguarda soltanto l’espansione del business del cloud di Microsoft. Un motivo aggiuntivo, che favorisce Microsoft e le altre Big Tech, è che, sviluppando il DPI, i governi spingono tutti i loro cittadini a diventare soggetti su cui avviene il rilevamento dei dati.

Secondo l’Unione Internazionale delle Telecomunicazioni, nel 2024 la penetrazione di internet nel mondo era del 68%. Sebbene la cifra sia impressionante, significa comunque che il 32% della popolazione non produce regolarmente dati per le Big Tech e le altre grandi piattaforme. Si tratta di milioni di cittadini che, spinti dai loro governi attraverso il DPI, finiranno per iniziare a usare internet in maniera più ampia, ampliando così la raccolta di dati da parte delle Big Tech. Dati che non saranno usati solo per perfezionare ulteriormente le loro piattaforme e vendere pubblicità mirata, ma anche per addestrare modelli di intelligenza artificiale generativa.

Da una prospettiva geopolitica, gli Stati che promuovono il DPI finiscono per promuovere ciò che la letteratura ha descritto come estrattivismo dei dati o colonialismo dei dati (Couldry & Mejias, 2019). Se rendere universale l’obbligo di avere documenti di identità fisici è ciò che ha permesso loro di svolgere un ruolo normalizzante nella società, attraverso il DPI, il potere di misurazione delle Big Tech arriverà a coprire l’intera popolazione mondiale. Il costo che comporterà il facilitare l’azione degli Stati attraverso il DPI sarà quindi l’espansione del business globale delle Big Tech e la sorveglianza di ogni individuo e relazione.

Si potrebbe comunque sostenere che i servizi DPI siano un bene pubblico e che la popolazione tragga beneficio dal disporre di un’identità digitale, dalla possibilità di pagare con il telefono e dalla condivisione dei dati all’interno del settore pubblico, ad esempio unificando i dati sanitari per migliorare le cure. Come rendere lo sviluppo di queste infrastrutture un bene pubblico?

Dal DPI alla sovranità digitale popolare 

Per contribuire a superare le dipendenze strutturali e investire nella scienza e tecnologia digitale pubblica, i governi dovrebbero mirare a sviluppare forme democratiche di programmazione dello sviluppo. Ciò significa che le politiche digitali devono essere considerate parte di una strategia più ampia.
Espandere la democrazia attraverso la programmazione richiederà l’espansione della sovranità digitale per le persone e per il pianeta. In questa accezione, “sovranità” significa produrre tecnologia, decidere quale tecnologia vogliamo, perché e per quali scopi, con piena consapevolezza delle loro implicazioni ambientali, sociali, economiche, etiche e politiche. In questo senso, la sovranità digitale deve essere intesa come il controllo democratico, da parte degli Stati e dei loro popoli, delle tecnologie essenziali per la loro vita e il loro autogoverno.
Disporre di un’infrastruttura digitale pubblica (PDI, da non confondere con DPI), come ad esempio data center pubblici, è un elemento cruciale di quella che dovrebbe essere una strategia molto più ampia per costruire un ecosistema digitale democratico (Rikap, 2025; Rikap et al., 2024). Da soli non sono sufficienti, ma è impossibile immaginare lo sviluppo di un ecosistema digitale alternativo senza garantire contemporaneamente la necessaria infrastruttura fisica.

Eppure, da soli, i data center pubblici e altre infrastrutture fisiche non saranno sufficienti a superare le dipendenze digitali. I cloud delle Big Tech costituiscono un “territorio digitale unico” non solo per l’archiviazione e l’elaborazione dei dati – e dunque per la produzione di servizi digitali – ma anche un mercato in cui questi servizi vengono scambiati e consumati. Ciò rende i loro cloud un passaggio obbligato per organizzazioni di ogni tipo. Il caso degli Stati che archiviano e gestiscono i propri DPI sulle infrastrutture delle Big Tech, come menzionato sopra, è solo uno dei tanti esempi di come questo collo di bottiglia operi.
Affinché un ecosistema o una catena del valore alternativa possa prosperare e mantenere aperte le conoscenze fondamentali, l’infrastruttura fisica pubblica dovrebbe essere integrata da un mercato guidato dal settore pubblico, finalizzato a sviluppare, condividere e scambiare servizi digitali tra settore pubblico e fornitori diversi, mantenendo sempre la tecnologia aperta e trasparente per gli Stati che la utilizzano.

Questa catena del valore disaccoppiata dovrebbe inoltre essere integrata da piattaforme fondamentali offerte come servizi pubblici che restino open source, in modo da consentire a chiunque di costruire applicazioni e altre soluzioni specifiche al di sopra di esse. Il DPI può essere incluso tra queste piattaforme pubbliche, insieme a servizi digitali essenziali come un motore di ricerca, marketplace di e-commerce, modelli di intelligenza artificiale di base e persino una piattaforma di social media.

Per espandere la sovranità digitale il settore pubblico dovrebbe evitare di collocarsi all’interno di ecosistemi controllati dalle Big Tech e invece creare una catena del valore alternativa, la cui infrastruttura – sia fisica che a livello di piattaforme chiave – resti pubblica. Costruire una simile alternativa è tutt’altro che semplice, ma le attuali pressioni politiche e aziendali che i governi progressisti affrontano quando cercano di regolamentare e tassare le Big Tech forniscono un’ulteriore giustificazione per il suo sviluppo da parte di qualsiasi governo che voglia mantenere, e idealmente espandere, la propria sovranità.

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