Grecia: la legge che consente di lavorare fino a tredici ore al giorno
In Grecia è entrata in vigore la possibilità di lavorare fino a tredici ore al giorno, sei giorni alla settimana. Formalmente non è un obbligo: la legge parla di una “facoltà” concessa alle imprese, attivabile solo con l’accordo individuale del lavoratore. Eppure, come spesso accade, la differenza fra facoltà e obbligo è più fragile di quanto sembri.
Quando la contrattazione collettiva viene sostituita da un rapporto individuale, l’asimmetria di potere fra chi offre e chi cerca lavoro diventa quasi totale. Nella teoria giuridica resta il principio di libertà contrattuale; nella pratica, in contesti segnati da disoccupazione, precarietà e salari bassi, il “consenso” si trasforma facilmente in necessità. Non sei obbligato a lavorare tredici ore, ma potresti non avere alternative. E, comunque, il punto non è ancora quello più essenziale.
Lavorare di più non significa guadagnare di più
La riforma greca non può essere letta come un episodio isolato. È un esperimento europeo: un laboratorio politico e sociale che misura la capacità del continente di accettare un arretramento storico in nome della competitività e della flessibilità. Ogni crisi — economica, energetica, o demografica — diventa il pretesto per rimettere in discussione conquiste che sembravano acquisite, come la limitazione dell’orario o la tutela collettiva.
Da decenni i salari reali restano fermi, soprattutto nei paesi del Sud Europa. In Grecia e in Italia, chi lavora guadagna in media meno di vent’anni fa, al netto dell’inflazione. Lavorare di più non significa guadagnare di più: significa semplicemente riempire con ore e straordinari il vuoto lasciato da politiche salariali inadeguate, da produttività stagnante, da un modello di sviluppo che non redistribuisce. I salari dovrebbero finalmente cominciare a salire, a parità di tempo di lavoro. Solo questo darebbe un primo segnale e una prima risposta al problema dei working poor.
La logica del “più lavoro individuale” non produce più occupazione, ma solo più sfruttamento del tempo di chi lavora già. È la trasformazione silenziosa di un principio economico in un principio morale: l’idea che lavorare di più equivalga a essere più meritevoli, più utili, più moderni. In realtà, è l’opposto. Ogni ora in più sottratta al tempo libero, alla formazione, alla vita familiare e sociale, non accresce la ricchezza collettiva: la sposta, la concentra, la impoverisce nella sua qualità umana.
Otto ore per vivere: la libertà del tempo e la sfida del futuro
Le lotte per la giornata lavorativa di otto ore — che in Italia si affermarono nel primo dopoguerra e poi nel compromesso sociale del Novecento — non furono una semplice battaglia sindacale. Furono una battaglia culturale, antropologica. Riguardavano l’idea stessa di libertà.
Otto ore per lavorare, otto per vivere, otto per dormire: questa divisione, apparentemente aritmetica, fu una rivoluzione morale. Significava che la vita non poteva essere interamente assorbita dal lavoro, che la cittadinanza non coincideva con la produttività.
Oggi, in un continente che discute di intelligenza artificiale e di riduzione degli orari grazie alla tecnologia, la reintroduzione di giornate da tredici ore suona come una regressione simbolica. È la riproposizione di un’idea arcaica di lavoro come misura della sopravvivenza individuale, non come fondamento di una vita comune.
La Grecia, in questo senso, è il laboratorio di una deriva che ci riguarda tutti. Ci mostra la direzione verso cui rischiamo di muoverci: una società in cui il tempo torna a essere merce, e la contrattazione si riduce a una trattativa fra solitudini.
Forse la vera modernità non è lavorare di più, ma poter vivere del proprio lavoro.
E avere ancora, alla fine della giornata, del tempo che resti nostro.