Crescita o sviluppo? Una distinzione necessaria
Produrre meno, consumare meno. Rallentare. Timothée Parrique nel suo Rallentare o morire (Marsilio) propone di uscire dal mito del pil, in cui siamo entrati almeno un secolo fa riprendendo un tavolo di lavoro a cui, nel 2009, Alain Caillé aveva dato un volto nel suo Théorie anti-utilitariste de l’action (la Decouverte). In quel libro Caillé declinava la necessità di dare un nuovo nucleo riflessivo a una sinistra che da tempo si era fatta sottrarre temi e parole d’ordine dalla destra. Per farlo, era necessario passare da una filosofia politica fondata sull’autonomia del soggetto alla ricerca del benessere collettivo. Tema non nuovo per Caillé e su cui già insisteva nel 1997, nel suo Trenta tesi per la sinistra (Donzelli).
Riflessione che obbligava a riconsiderare il senso di due concetti che spesso consideriamo sinonimi e interscambiabili, ma che invece implicano due agende radicalmente diverse: da una parte «crescita», dall’ altra «sviluppo».
Crescita è una parola che nel senso comune intende esprimere progetto di felicità. È davvero così oppure se ci limitiamo a tifare per la crescita ci perdiamo qualcosa, per esempio “sviluppo”?
La teoria della crescita si distingue dall’economia dello sviluppo per l’attenzione esclusiva agli aspetti quantitativi e alla formalizzazione, a discapito dello studio degli aspetti istituzionali, storici, etici, antropologici che condizionano i processi di sviluppo nelle diverse regioni del mondo.
Una storia che ha un precedente.
1940 Giorgio Fuà si trova a Losanna, dove è emigrato dopo la sua espulsione in seguito alla legislazione razziale fascista del 1938.
Al centro del libro il tema del rapporto tra quantità di risorse naturale, capitali strumentali, organizzazione sociale. Un criterio che propone è l’abbandono del popolazionismo, ovvero della crescita numerica della popolazione come fattore principale di sviluppo e di benessere che è un principio della cultura fascista di allora e delle destre di ora.
Una nuova idea di benessere
Realizzare benessere, secondo Fuà, include che si considerino altri fattori. Per esempio: gli equilibri delle economie nazionali e la politica sociale collegando il tema dell’“optimum” in economia non solo alla quantità, ma anche alla distribuzione. Oppure sottolineando l’importanza del problema delle fonti di energia, del loro rinnovamento, dell’individuazione di altre fonti, meglio se rinnovabili. Oppure è quello della qualità e dell’educazione ai consumi.
In altre parole: lo sviluppo non è solo un dato quantitativo, ma allude anche a un dato inerente la qualità.
Con le sue note Giorgio Fuà ripropone un tavolo di questioni che in solitudine, un secolo prima, aveva proposto Carlo Cattaneo. Per Cattaneo lo sviluppo è: vocazione del territorio, storia sociale, comportamenti economici degli attori che su quel territorio agiscono e si muovono.
È il segno di una nuova prospettiva, in cui diventano centrali l’analisi del territorio, la storia delle forme di contratto e la geografia storica — discipline che, insieme all’economia, contribuiscono a definire che cosa intendiamo per sviluppo, ieri come oggi. Dietro questa riflessione c’è una lunga storia di confronto intellettuale, disciplinare e politico tra chi cerca di ripensare il significato stesso di sviluppo — distinto dalla semplice crescita — e di proporre modelli fondati sul contenimento dei consumi e su un’idea diversa di benessere collettivo.