I sacerdoti dell’informazione perduta  


Articolo tratto dal N. 59 di L'ultimo numero: dentro la crisi dell'informazione Immagine copertina della newsletter

Dalle redazioni ai social: la fine del rito della carta

Come sacerdoti di una religione ormai scomparsa ogni giorno in Italia migliaia di giornalisti officiano un rito di altri tempi. Come druidi si ritrovano al mattino, sempre alla stessa ora, in luoghi che un tempo pullulavano di energia chiamati redazioni; ed iniziano a discutere con passione e serietà di cosa pubblicare il giorno dopo su oggetti cartacei che quasi nessuno vede più in giro. Discutono tutto il giorno. Dal piglio con cui agiscono diresti che sono come quegli attori capaci di recitare in un teatro vuoto come se fosse gremito.

Ci vuole del talento. In un certo senso sono ammirevoli. Usano un lessico incomprensibile per i più e non perchè sia tecnico, ma perchè antico, appartenente a un’altra epoca: parlano di aperture e di spalle, di fogliettoni e di colonnini, di sommari e catenacci; si infervorano per lo sfoglio, dibattono di cosa mettere a pagina 23 invece che a pagina 15 come se davvero cambiasse qualcosa; armeggiano un timone immaginario con il quale un tempo provavano a governare il mondo, o almeno ad influenzare il modo in cui la gente lo vedeva. E in effetti ci riuscivano.

I giornali di carta sono stati una meravigliosa invenzione del Seicento, come l’orologio a pendolo e il clavicembalo (che si diffuse in quel secolo pur essendo stato inventato prima); ma sono durati molto più a lungo. Non per caso. Grazie ad essi si sono fatte rivoluzioni, affermati diritti civili, combattuto i prepotenti, controllato i potenti.

La gente ci cominciava la giornata al mattino con un gesto da molti ritenuto necessario e durato almeno un paio di secoli ma oggi sostituito dal primo clic sullo smartphone per scorrere le notifiche social mentre siamo ancora a letto. Se il mondo ad un certo punto ha iniziato a diventare più piccolo e comprensibile è grazie ai quotidiani cartacei. Prima non c’era davvero modo di sapere cosa era accaduto fuori dal circondario.

I giornali non erano solo letti, erano ambiti: quando accadeva un fatto grosso, le persone quasi li strappavano di mano a dei ragazzini che li vendevano in strada strillando le ultime notizie. Ce n’era un dannato bisogno.

Del resto chi leggeva un giornale aveva un vantaggio su tutti gli altri: sapeva come stava girando il mondo. E questa funzione non è davvero mutata nemmeno quando sono arrivati la radio e la televisione che pure avrebbero potuto spazzare via un oggetto che arrivava sempre, inevitabilmente, alcune ore dopo i fatti. Non era accaduto perché il ruolo fondamentale di costruttore di senso e distributore di idee – e quindi di creazione di comunità – non era mai venuto meno.

Poi è arrivato il web ed è cambiato tutto. Chiariamo: il bisogno di trovare un senso alle cose che accadono e diffondere idee non è finito. Si è semplicemente spostato altrove. Perché è successo? Perché le cose a un certo punto cambiano, sempre. Era inevitabile in quel momento?

Probabilmente sì, a meno di non voler credere che il clavicembalo abbia ancora un futuro. Il problema è che nel frattempo non abbiamo inventato l’omologo del pianoforte. E per effetto di ciò la musica, una certa musica, la sinfonia dell’informazione, rischia di sparire.

Se la cosa non fosse terribilmente seria, se non stessimo parlando di un bene primario, di noi e della democrazia, diresti che quella che va in scena tutte le mattine nelle redazioni dei giornali è una recita, come quelle che si fanno nei paesi quando gli abitanti una volta l’anno si vestono da templari ma poi la sera tornano a casa e tutto ricomincia come prima. Epperò i nostri sacerdoti dell’informazione non stanno recitando anche se officiano il loro rito quotidiano in chiese sempre più vuote.

In un giornale molto noto ogni giorno il direttore prima della riunione, scorrendo i necrologi, chiede ai presenti di fare una preghiera per i morti del giorno prima: sono tutti lettori che abbiamo perso, dice, e che non verranno rimpiazzati dai giovani. I dati sono inequivocabili: il 2025 sarà il primo anno in cui la diffusione totale dei giornali di carta in Italia sarà sotto il milione di copie al giorno; erano sei milioni venticinque anni fa.

Quale impresa economica può reggere perdendo l’80 per cento della sua quota di mercato? E perchè persone in gamba, spesso con lunghe carriere alle spalle, si prestano lo stesso a questo rito quotidiano che ormai ha sempre meno senso? Per nostalgia? Per ostinazione? Per pigrizia? E perché gli editori lo pretendono?
Forse perché un giornale di carta è ancora un buon modo per parlare al potere politico e quindi condizionarlo? Probabile. Ma fino a quando? E poi che ne faranno delle redazioni, le rottameranno dopo averle svuotate di senso?

Gli algoritmi al posto dei direttori: l’informazione in crisi

I veri interessi degli editori spesso sono evidenti e per certi versi persino comprensibili. Ma nel caso dei giornalisti stiamo parlando di gente che ha scelto questo mestiere quasi sempre per passione e la passione spesso non è sparita ma oggi il loro impegno li fa assomigliare a quegli innamorati che scrivono lettere d’amore per amanti che non ci sono più. Nulla li fa demordere dal ripetere il loro rito quotidiano. Sono come il Sognatore delle Notti Bianche di Dostoevskij ma prima che dica: “Il mio sogno è finito!”.

La rivoluzione digitale ha disintegrato quel sogno, ovvero l’informazione come la conosciamo, con alcune mosse micidiali che non abbiamo visto arrivare e, quando le abbiamo viste, non le abbiamo capite. E’ bene riassumerle, in ordine cronologico, con qualche necessaria semplificazione.

La prima mossa, già negli anni Novanta, è stata consentire alle persone di informarsi online immediatamente e gratis: si trattava quasi sempre di una informazione liofilizzata, la sintesi estrema di una notizia pubblicata altrove, ma per la stragrande maggioranza delle persone bastava e avanzava, mentre per tutti gli altri c’era un link da cliccare; poca roba, ma ci siamo accontentati. Sui ricavi insomma c’è stato il primo significativo smottamento. Nelle redazioni ad un certo punto è suonato l’allarme.

La seconda mossa è stata cambiare la natura stessa dei giornali i quali, per non perdere rilevanza, invece di investire sulla qualità hanno scommesso sulla quantità, ovvero hanno inseguito le aziende tech sull’unico fronte sul quale non potevano mai vincere. Pubblicare di più. Non basta: pensando di aver trovato una soluzione alla contrazione dei ricavi, hanno stretto accordi per pubblicare articoli fatti apposta per motori di ricerca e social network e quindi si sono piegati alle loro logiche.

Più sensazionalismo, più allarmismo, più estremismo, per diventare “virali”. Questa mossa è stata devastante: invece di difendere la propria specificità, l’autorevolezza, la profondità, la capacità di costruire un senso, i giornali hanno fatto quello che gli algoritmi chiedevano; in questo modo hanno raggranellato un po’ di traffico per farci girare un po’ di pubblicità ma in cambio hanno perso l’anima. Questa trasformazione ha avuto due effetti collaterali tutt’altro che trascurabili: la viralità dei contenuti in rete infatti poggia spesso su due sentimenti ai quali noi esseri umani siamo particolarmente sensibili, la paura e la rabbia. Aver privilegiato contenuti che aumentano paura e rabbia nei lettori ha mutato la loro percezione del mondo e alla fine ha cambiato il mondo. Si tratta, questo, di un errore imperdonabile.

A questo va aggiunto che l’indebolimento della funzione originaria dei giornali è stato particolarmente evidente quando gli algoritmi dei social – e certi leader politici – hanno spinto sul concetto di “verità alternative”, che gli algoritmi premiavano in quanto generatrici di “engagement” in chi legge. L’irrompere delle fake news nella nostra vita non è stato contrastato portando finalmente il fact checking dentro i giornali, e quindi scommettendo su una informazione più autorevole ed equilibrata, ma pretendendo che il fact checking lo facessero i social network.

L’effetto, misurato scientificamente, è stato paradossale: per un utente medio l’opinione di un fact checker postata sui social, se non conferma i propri pregiudizi, è soltanto un’altra opinione fasulla. La scomparsa dei fatti, ovvero di un patrimonio comune di conoscenza in cui una comunità si ritrova al di là delle convinzioni politiche, è il risultato di questa torsione collettiva alimentata dagli algoritmi che i giornali non sono stati capaci di contrastare.

La terza mossa è appena arrivata: è l’intelligenza artificiale generativa che genera, appunto, riassunti istantanei di qualunque notizia da quello che viene pubblicato in rete. Non c’è più niente da cliccare. L’utente si ferma lì, all’overview; il traffico si azzera e così i ricavi. Perché del resto uno dovrebbe andarsi a cercare un contenuto ulteriore che di solito nel migliore dei casi è superficiale perché quello buono, quello di qualità, viene riservato al giornale di carta?

Il digital first infatti, mantra adottato da tutti come segno di modernità, in Italia è stato interpretato così: first, prima, mettere online qualcosa scritto rapidamente e senza troppi approfondimenti e soprattutto adatto agli algoritmi dei social (ma non certo ad attrarre abbonamenti); e after, poi, costruire ogni giorno la cattedrale del giornale di carta sperando che miracolosamente i fedeli tornino a frequentarla.

Hanno fatto, stanno facendo, come i produttori di carrozze quando è arrivata l’automobile. Una resistenza esteticamente notevole ma sostanzialmente inutile.

Verso un nuovo giornalismo: da Substack all’Intelligenza artificiale

In tutto ciò il bisogno di informarsi non è sparito: si è spostato altrove. E il desiderio di informare non si è spento: ha trovato altre strade. La crisi dei giornali come imprese editoriali, e quella del giornalismo come missione riconosciuta dalla società, non è anche la crisi dei giornalisti, o meglio di quei giornalisti che stanno cercando strade più efficaci per fare il loro mestiere.

Gli esempi di startup editoriali di successo sono tantissimi ormai. Alcune sono organizzati come vere e proprie testate. Tipo Axios: fondata nel 2016, ha inventato uno stile informativo attraverso elenchi puntati e domande; in molti casi, come la tregua a Gaza, è stata la fonte principale per capire cosa stava accadendo durante le trattative fra Israele, gli Usa e Hamas. Axios, non il New York Times.

Altre sono piattaforme che forniscono a singoli giornalisti l’opportunità di creare comunità di lettori o ascoltatori anche paganti su contenuti prodotti da ciascuno. La più nota è Substack: fondata nel 2017, conta  milioni di utenti. Qui, per fare un esempio tra i tantissimi, lo scrittore Alessandro Baricco ha postato un suo formidabile saggio breve su Gaza concluso con l’appello: “Se questo testo vi piace, diffondetelo. Se vi piace molto, traducetelo, prima che lo faccia l’IA, e fatelo girare. Grazie”. Non c’è immagine più lampante della perdita di centralità dei giornali di carta in Italia di questa mossa, agita con naturalezza, come se fosse evidente ormai che passare nelle cattedrali vuote non è più il modo migliore per parlare ai fedeli.

Ma c’è un caso ancora più potente e se vogliamo, sistematico, che racconta il cambiamento in atto. Si chiama The Free Press. Quando è morta Diane Keaton, qui è uscito un lungo bellissimo post in cui Woody Allen la ricordava. Qui e non sul New York Times, o sul New Yorker o su prestigiose testate di quel rango. Ma cos’è The Free Press?

E’ nata su Substack nel 2021 come newsletter col nome di Common Sense, curata da una ex editorialista del New York Times, Bari Weiss, in polemica con alcune posizioni “woke” del giornale. Dato il successo nel 2022 è diventata una media company e qualche mese fa è stata comprata da Paramount Skydance mentre la Weiss è diventata direttrice di CBSnews. Forse gioverà riflettere sulla cifra pagata per l’acquisizione di una startup editoriale con tre anni di vita: 150 milioni di dollari.

Si potrebbe andare avanti a lungo. Ma mi scuserete: ho la riunione per la prima pagina di domani.


Nell’immagine, Robert Redford e Dustin Hoffman in Tutti gli uomini del presidente.