Securitarismo e disuguaglianze, le radici di una crisi democratica


Articolo tratto dal N. 60 di Di-segno autoritario Immagine copertina della newsletter

Sembrano ormai lontanissimi gli anni in cui la nozione di sicurezza veniva immediatamente ricondotta al welfare e alla cultura politica dei diritti sociali intesi come diritti fondamentali. In altre parole, sembrano ormai fantasmatici gli anni in cui si poteva ancora immaginare l’idea di sicurezza sociale senza dover per forza attingere al lessico panpenalistico che fa della nozione stessa di sicurezza un sinonimo del concetto di “ordine pubblico”.

Disuguaglianze e “securitarismo”

L’ultimo tentativo fu fatto negli anni Novanta quando, attraverso il progetto pilota “Bologna città sicura” del medesimo comune, si provava — con il supporto di sociologi, giuristi e cittadini — a trovare strumenti condivisi e democratici per far fronte alla percezione diffusa di insicurezza negli spazi urbani attraverso la prevenzione.

Naturalmente gli anni Novanta sono stati anche gli anni dell’affermazione del “blairismo” e del suo neoliberismo temperato nel centro sinistra.

Ma, come ormai noto, sono stati anche e soprattutto gli anni della prima ascesa della Lega Nord, il primo partito politico italiano che ha trasformato la percezione dell’insicurezza sociale in “securitarismo”, una vera e propria ideologia politica coadiuvata da una strategia comunicativa efficace, mirata a strumentalizzare le paure sociali al fine di trasformarle in un bacino elettorale garantito.
Come? Attraverso la costruzione della figura del “migrante delinquente” o del “migrante che ruba il lavoro agli italiani”.

Tuttavia, quegli anni non sono stati determinati solo dalle prime migrazioni consistenti verso l’Italia. Accadeva anche che si faceva strada un modello di sviluppo economico fortemente determinato a privatizzare ingenti settori produttivi al fine di ridurre la spesa pubblica — dunque il welfare state — per andare solo nella direzione del mercato, della competizione, della libera concorrenza e della religione del “diventa anche tu imprenditore di te stesso!”, scomponendo e precarizzando anche il lavoro.

In sintesi, come nella famosa e popolare metafora del cane che si morde la coda, potremmo dire che il “securitarismo”, inteso come puro strumento di ripristino dell’ordine pubblico autoritario e totalmente funzionale ad annientare la cultura redistributiva dei diritti, è stato ed è utilizzato strumentalmente dagli stessi attori sociali che hanno generato insicurezza sociale generalizzata, nuove forme di povertà e un discreto picco dei tassi di diseguaglianza sociale.

Infatti è scientificamente provato che le devianze e le marginalità sociali, la povertà e le diseguaglianze non sorgono da sole, ma vengono generate dai modelli di sviluppo e nel caso della criminalizzazione del dissenso, come vedremo più avanti, dalle gradazioni dell’assetto democratico. Per cui risulta piuttosto paradossale criminalizzare le marginalità sociali prodotte dagli stessi attori politici che le hanno generate.

Il corto circuito repressivo

Non è un caso, infatti, che tra molti sociologi della devianza sia diffusa la formula: meno diritti uguale maggiore propensione a delinquere, più diritti uguale meno propensione a delinquere. Un vero e proprio corto circuito che oggi ha assunto proporzioni sempre più preoccupanti.

Infatti, la stretta securitaria ha cominciato a colpire e a criminalizzare anche il dissenso politico, trasformando molte forme di azione politica in fattispecie di reato: si va dal reato di occupazione abusiva di immobili in disuso all’inasprimento delle pene per comportamenti che erano già stati depenalizzati, quali il blocco stradale durante le manifestazioni, e così via.

Senza considerare che molti strumenti di carattere amministrativo, come l’uso delle ordinanze, la detenzione amministrativa e strumenti quali il Daspo, agiti prevalentemente contro le cosiddette “marginalità sociali”, sono ormai divenuti la norma.

Le città “securizzate”

Le nostre città sono oggi “securizzate” non a causa dell’aumento dei crimini, bensì a causa dell’aumento delle diseguaglianze sociali e della retrocessione della funzione redistributiva dei diritti — primo fra tutti il diritto al reddito. Sono diventate insicure anche per chi tenta di manifestare il proprio dissenso.

La logica questa volta è: più tolleranza zero e criminalizzazione del dissenso uguale più autoritarismo; meno tolleranza zero e criminalizzazione del dissenso uguale più democrazia.

Lo dimostrano, oltre all’ultimo pacchetto sicurezza, anche l’ultimo ddl Gasparri, non ancora approvato, il quale mira a equiparare l’antisionismo con l’antisemitismo tramite l’istituzione di un ennesimo reato, questa volta di opinione.

Una nuova stagione politica?

Eppure, il dato davvero interessante è che, nonostante questa nuova stretta securitaria abbia generato una nuova batteria di reati politici, gli scioperi e le molteplici manifestazioni contro la complicità del governo Meloni con le politiche nazionaliste di Israele dimostrano che la paura sociale non è più così complice del processo di depoliticizzazione e di sfiducia verso il sistema politico.

Anzi, per trovare una nuova misura del mondo — a partire dalla critica radicale a ogni forma di “deumanizzazione” dei dispositivi che mirano a reprimere il dissenso in un contesto solo apparentemente “democratico” — lo stesso dissenso diventa e può ancora diventare un motivo di ripoliticizzazione delle coscienze assopite e disorientate dalla storia.

E che, anzi, per trovare una nuova misura del mondo, a partire dalla critica radicale a ogni forma di “deumanizzazione”, è ridiventato fondamentale ripoliticizzarsi, stare insieme, ripopolare le piazze, difendere i propri quartieri. Un dato estremamente interessante che rovescia il clima di depressione politica prima e di sfiducia politica è il “processo di depoliticizzazione di massa”. Un processo che nell’ultimo decennio ha generato l’astensionismo, nonché il dilagare del qualunquismo, ovverosia il terreno più fertile per l’ascesa delle destre nazionaliste e autoritarie.

Eppure, possiamo dire che nonostante l’ultimo “pacchetto sicurezza” (D.L. 159/2025) sia stato pensato ad hoc per ridurre al minimo il dissenso e il conflitto sociale nei confronti del governo in carica, nei fatti non ha sortito l’effetto desiderato. Anzi, potremmo dire che ha funzionato proprio come un detonatore per una nuova stagione di ripoliticizzazione dal basso. D’altronde nessuna sicurezza è mai davvero possibile senza diritti e giustizia sociale!