Correva l’anno 1992, quando il parlamento europeo cominciò a occuparsi della concentrazione della proprietà dei media. Negli anni in cui in Italia accadeva l’inimmaginabile – un diretto impegno politico da parte del monopolista privato della televisione – l’Europa cercava di correre ai ripari. Senza successo, poiché ogni sforzo di limitare la concentrazione della proprietà dei media si infranse contro i veti nazionali.
Oggi, oltre trent’anni dopo, una legge europea sui media prova a intervenire, tra le altre cose, anche sull’eccesso di potere sui mercati dei media, stabilendo che ogni volta che c’è una fusione societaria nel campo dei media va valutato il suo impatto sul pluralismo dell’informazione e sulla indipendenza editoriale.
La legge è appena entrata nello stato di attuazione, e ci vorrà un po’ per vedere i suoi effetti. Ma è una buona occasione per fare il punto, a trent’anni di distanza da quella che fu l’emergenza Berlusconi. Da allora, è aumentata o si è ridotta la concentrazione del potere nel campo dei media? Per rispondere, bisogna partire dall’ovvia constatazione che un oceano ci separa dal mondo dell’informazione di trent’anni fa. Ha senso, misurare il potere di chi produce informazione dall’alto, data la cornucopia di informazioni dal basso disponibile in rete? E conta di più possedere i media, o i canali d’accesso all’informazione, ossia social media, motori di ricerca, modelli di intelligenza artificiale?
Le risposte brevi sono: sì e sì; e contano entrambi. Innanzitutto, non va dimenticato che, tra i media tradizionali, la televisione resiste come principale fonte di informazione ancora per la maggioranza della popolazione (51% nell’Unione Europea, quasi 60% in Italia). I social media seguono, al secondo posto nella media della UE (33%), e al terzo posto, dopo i siti di informazione online, in Italia (28%). Commissione Europea).
In secondo luogo, digitale e tradizionale non sono due mondi distinti ma un circuito unico, nel quale notizie, opinioni e tendenze si formano e quel che conta è il controllo dell’agenda. Infinite notizie e punti di vista possono essere presenti in rete, eppure la stragrande maggioranza non arriva nell’agenda mainstream, ma vanno a nutrire il pulviscolo degli algoritmi personalizzati.
La coesistenza di tante microscopiche “sfericole” in cui la sfera pubblica si è frammentata non è sinonimo di pluralismo, né riduce la necessità di evitare posizioni di strapotere sull’opinione pubblica.
Più concentrazione, meno pluralismo
E i dati ci dicono che la concentrazione è aumentata. Secondo i risultati del Media Pluralism Monitor – che è un “misuratore” dello stato del pluralismo informativo in Europa – sono infatti a rischio “molto alto” gli indicatori sulla concentrazione sia per quanto riguarda i media che i mercati digitali, dove un duopolio (Google-Meta) controlla oltre due terzi delle risorse pubblicitarie. Segue l’indicatore sulle minacce alla indipendenza editoriale che vengono dagli interessi commerciali e della proprietà.

L’industria dei media, entrata in profonda crisi economica proprio in seguito all’emorragia delle entrate da pubblicità e da vendite dovuta alla rivoluzione digitale, ha reagito concentrandosi ancora di più. E molto spesso i protagonisti di tali concentrazioni sono mossi anche (o solo) da interessi diversi da quelli dell’informazione: in ben 22 dei 27 Paesi membri dell’Unione Europa, i proprietari dei principali media hanno interessi anche in altri settori economici.
In Italia, che non è mai stata patria di “editori puri”, la situazione non è migliorata. Al vertice di ogni settore c’è la storica commistione di giornali, automobili, assicurazioni, tv, radio, immobiliare, sanità (l’unico editore quasi-puro, tra quelli più grandi, è la RCS di Urbano Cairo). Mediaset è adesso una delle prime holding europee, con sede legale in Olanda, e nell’estate ha portato a termine l’acquisizione della tedesca ProSieben, con una scalata che ha preoccupato il ministro della cultura tedesco. In Italia, Mediaset è ancora il secondo gruppo televisivo, con uno share di ascolti del 36,8% (appena un punto sotto quello della Rai) (dati Agcom).
Interessi e influenze nel mondo dell’informazione
La mancata riforma del conflitto di interessi ha fatto proliferare i casi di concentrazione di potere economico-politico-mediatico. Il più eclatante è quello del gruppo Tosinvest della famiglia Angelucci, che controlla Libero, Il Tempo, e il Giornale; il capostipite del gruppo, Antonio, è parlamentare e sostiene la maggioranza di governo. Va detto che il quotidiano Libero riceve anche fondi pubblici, per gli assai discutibili meccanismi del finanziamento dell’editoria. Gli stessi che fanno sì che il maggior beneficiario dei fondi per il pluralismo sia il quotidiano Dolomiten, edito da un politico e monopolista locale, ossia Michl Ebner (gruppo Athesia, attivo in media, telecomunicazioni, infrastrutture e turismo).
La commistione di interessi è ormai un dato comune a tutte le realtà dei media locali, ed è avanzata di pari passo con l’entrata in crisi e la cessione di testate storiche. Nel Nord Est, imprenditori con interessi strategici nelle infrastrutture ed economia locale si sono uniti in una società editoriale (la NEM) che controlla Il Mattino di Padova, La Tribuna di Treviso, La Nuova Venezia, Il Corriere delle Alpi di Belluno, Il Messaggero Veneto di Udine, Il Piccolo di Trieste.
A Genova il principale armatore del porto, la MSC, edita il Secolo XIX. In Abruzzo, il Centro è di proprietà del gruppo Pierangeli, che ha come business prevalente quello della sanità. Il gruppo Caltagirone, in ascesa vertiginosa ai vertici della finanza con l’acquisizione del controllo di Mediobanca, mantiene un settore editoriale rilevante (Messaggero, Mattino, Gazzettino, Leggo, Nuovo Quotidiano di Puglia e Corriere Adriatico), benché in perdita. Mentre il quotidiano La Sicilia è stato acquisito da Salvatore Palella, fondatore della società monopattini a noleggio Helbiz.
Perché, se i media sono in crisi e non contano più niente, fanno tanta gola a ras locali e nazionali? Evidentemente anche i media-zombie possono tornare utili, per influenzare l’agenda e le decisioni politiche, o per strategie commerciali più vaste. A fare da barriera e garanzia contro le influenze commerciali e proprietarie, dovrebbero esserci le basilari regole del giornalismo e della sua etica, e la separazione tra le redazioni e i cda. Barriere storicamente deboli in Italia, e sempre più difficili da difendere in tempi di totale insicurezza economica e precarietà dei giornalisti.