Narrare la propria violenza:
il punto di partenza per Israele e Palestina
 


Articolo tratto dal N. 53 di Gaza futura umanità Immagine copertina della newsletter

Quali sono gli scenari possibili dopo la fine della guerra a Gaza? Le due immagini che abbiamo di fronte, entrambe distopiche ed entrambe almeno in parte tragicamente vere, sono quella di uno spazio urbano distrutto con edifici e infrastrutture rase al suolo, in uno scenario che ricorda Dresda, dopo la Seconda guerra mondiale. E quella grottesca e agghiacciante della “riviera” trumpiana, il disegno di una futura ricostruzione a fini speculativi e turistici – fa rabbrividire il solo pensiero – progettata dal genero del presidente USA, l’immobiliarista ebreo Jared Kushner, e dall’ex premier britannico, convertito in tycoon, Tony Blair. 

Ma è chiaro che pensare al “dopo Gaza” ha ben altre implicazioni, come evidente anche solo dalla comparsa di vari titoli recenti che, da diverse prospettive, si interrogano sul tema: da Il mondo dopo Gaza di Pankaj Mishra (uscito in Italia da Guanda), a Essere ebrei dopo la distruzione di Gaza di Peter Beinart (Baldini+Castoldi), ma anche il discutibile Pensare dopo Gaza. Saggio sulla ferocia e la terminazione dell’umano di Franco «Bifo» Berardi, Timeo. 

Considerazioni sulla possibilità di un “dopo Gaza” 

Ciò che queste riflessioni hanno in comune, su un piano generale, è la percezione di un evento cataclismatico periodizzante, che impone già di proiettarsi verso un dopo, mentre quell’evento o insieme di eventi, la guerra a Gaza, la distruzione della striscia, migliaia di morti palestinesi (e centinaia di israeliani), migliaia di espulsi palestinesi: tutto ciò, si sta ancora compiendo. Una possibile analogia che emerge a proposito di riflessione sul dopo, spesso non esplicitata ma probabilmente (se non inevitabilmente) aleggiante è quella – richiamata solo indirettamente – dell’interdetto lanciato da Theodor Adorno nel dopoguerra, sull’impossibilità di “fare poesia dopo Auschwitz”. 

Su questo credo possiamo fare subito chiarezza: Gaza non è Auschwitz (nonostante Bifo dica con superficialità e in modo inutilmente provocatorio che la striscia è, è stata, “Auschwitz con le telecamere”. Storicamente, dico da storico interamente laico e senza la più remota sacralizzazione dell’Olocausto, una semplice bestemmia). Se anche quanto si sta compiendo nella striscia da parte di Israele è un genocidio, infatti, i genocidi hanno alcune caratteristiche generali comuni (almeno dal punto di vista giuridico), ma si presentano come eventi storici diversi: come del resto tutti gli eventi storici.  

La domanda che ci si può d’altra parte porre, su questa linea di pensieri, è se eventi come la guerra a Gaza in tutta la sua violenza, generino una lacerazione del tessuto civile e umano tale dal riscrivere le regole della convivenza civile (come Habermas e sulle sue tracce Saul Friedlander hanno suggerito per la Shoah). Questo è accaduto dopo Auschwitz, non credo avverrà o dovrà avvenire dopo Gaza, nonostante l’immane ed esecrabile violenza consumata nella striscia, acme e baratro di una catena di violenze che dura almeno dal 1948 da parte israeliana. Questa valutazione non sminuisce in nulla la portata e tragicità di quanto è avvenuto, cioè la portata dell’evento Gaza per la coscienza israeliana, ebraica, mondiale, oltre che ovviamente palestinese. 

Pensare al “dopo” politico 

D’altra parte, posti alcuni distinguo, su cui converrà continuare a riflettere ed approfondire se non altro perché non ci troviamo ancora nella condizione del dopo e la tragedia si sta ancora consumando e potrebbe sempre – speriamo di no- peggiorare, dobbiamo tornare alla prospettiva iniziale del dopo. Il dopo, sul piano della riflessione, delle ipotesi politiche, delle prospettive di ricostruzione e – necessariamente – di dialogo e di convivenza, deve passare necessariamente da alcuni passaggi che abbiamo già evocato altrove ma su cui è possibile ritornare. La costruzione di uno scambio empatico tra israeliani e palestinesi, arabi ed ebrei e persino da parte degli osservatori circostanti. Si tratta, per semplificare, della necessità di mettersi nei panni degli altri, di identificarsi a vicenda anche, con le sofferenze – e certo con la memoria storica – del nemico. Occorre inoltre, più in generale, immaginare un percorso simile a quello intrapreso dal Sudafrica (indipendentemente dai risultati occorsi li) con la costituzione di una Truth and Reconciliation Commission: un’indagine comune o parallela attorno ai nodi storici, le responsabilità collettive, le reciproche “colpe” da parte dei principali soggetti coinvolti. E un successivo auspicabile percorso di almeno parziale riconciliazione, per poter guardare assieme al futuro della regione. Non sappiamo ancora se in due stati limitrofi o nella situazione – oggi decisamente utopistica – di uno stato binazionale: ipotesi che pure ha avuto illustri sostenitori ebrei ed arabi, da Gershom Scholem a Edward Said. 

Narrare la “storia della propria violenza” 

Sulla scia della celebre lezione di Ernest Renan, Che cos’è una nazione? pronunciata alla Sorbona di Parigi ormai circa un secolo e mezzo fa e di una più recente riflessione di Jean Pierre Faye sulla violenza, David Bidussa ha sostenuto, proprio riflettendo sul caso di Israele, che ogni collettività “nasce ai propri occhi nel momento in cui si dà la narrazione della sua violenza”. Concretamente, dopo Gaza e 77 anni dopo il 1948 e la Nakba, Israele potrà rinascere e accanto ad esso potrà e dovrà nascere uno Stato palestinese, quando entrambi riconosceranno e sapranno narrare, idealmente assieme o per lo memo in modo vicendevolmente rispettoso, la storia della propria violenza. E guardare così assieme a una concreta possibilità di pace o almeno di convivenza.