Giornali in crisi, giornalisti anche
Vista da un’edicola di fronte alla stazione di Palermo, l’unica sopravvissuta nel raggio di chilometri, la crisi dei giornali ha i colori sgargianti dei gratta e vinci. Quando Salva Uzzo e suo marito Giuseppe Bruno hanno aperto, negli anni Ottanta, i quotidiani non bastavano mai. Oggi ne vendono circa trenta al giorno, se tutto va bene. Così sono diventati una ricevitoria, una biglietteria e da un paio d’anni anche un deposito bagagli a ore. «Solo così riusciamo a stare a galla, ma siamo rimasti gli unici. Tutti gli altri hanno chiuso», raccontano.
È il problema originario della stampa. Quello da cui bisogna partire per capire cosa non va nel mondo dell’informazione: perché i giornali chiudono, gli editori vogliono sbarazzarsene e i giornalisti sono pagati sempre meno, faticando a vivere solo di giornalismo. Il crollo della carta stampata, e quindi degli incassi di un settore che prima macinava profitti e ora non regge più, è la radice di tutto. Tutto parte da qui, da quest’edicola di Palermo che, come tante altre in Italia e nel mondo, ha visto scomparire i clienti.
La fine di un monopolio
Gli ultimi numeri dell’Autorità garante per le comunicazioni sono impietosi: dal 2020 al 2024 le testate nazionali hanno ridotto le vendite del 15,2 per cento, quelle locali del 25,9. Uno stillicidio che va avanti da anni e ha minato alle fondamenta il modello economico degli editori. «Fino agli anni Novanta, il sistema si reggeva su un equilibrio chiaro: vendere il giornale al lettore e il lettore all’inserzionista. Più copie vendevi, più la tua influenza sociale era alta e più valore potevi dare alla pubblicità», spiega Mario Tedeschini Lalli, giornalista in pensione con un lungo curriculum come consulente di strategie editoriali digitali. Un meccanismo possibile finché i giornali erano «le piattaforme del mondo, da dove passavano gli affitti come gli annunci di matrimonio», ma che «si è rotto con Internet», dice Tedeschini Lalli.
Per l’esperto, bisognava reinventarsi. «Invece, ci siamo limitati a trasferire sul web ciò che facevamo su carta, pensando di poter vendere informazioni, o peggio notizie, ma il digitale non era solo un formato diverso: era anche una cultura diversa», precisa. Un’opinione che però non ha avuto molto seguito, né tra gli editori né tra i giornalisti. «Per compensare le perdite in edicola si è pensato che bastassero la pubblicità online e la graduale introduzione dei paywall. Ma si è rivelata un’illusione», ammette Paolo Cagnan, vicedirettore con delega al digitale di Nord Est Multimedia Spa, la società che nel 2023 ha acquisito dal gruppo Gedi sei testate locali del Veneto e del Friuli Venezia Giulia, come Il Messaggero Veneto, Il Mattino di Padova e Il Piccolo di Trieste.
Gli abbonamenti digitali, come i ricavi provenienti dalle inserzioni online, sono aumentati, ma non abbastanza. Ecco perché oggi, spiega Cagnan, l’impresa sta lavorando in due direzioni: «Allargare il perimetro delle province coperte, oggi otto, e soprattutto diversificare i servizi offerti: podcast, newsletter, eventi, corsi di formazione. Per la carta, siamo alle cure palliative, la teniamo in vita artificialmente. La verità è che dovremmo convertire tutte le redazioni al digitale, ma nessuno ha il coraggio di farlo.»
Il risparmio sul costo del personale
Di un «fenomeno subito e non sempre governato» parla Francesco De Core, caporedattore di Repubblica. De Core ha vissuto il cambiamento mentre era a Il Mattino, lo storico quotidiano dell’Italia meridionale, dove ha lavorato per diciotto anni e di cui è stato sia vicedirettore sia direttore. «Le aziende editoriali — dice — hanno cominciato a investire sul web in ritardo e, in molti casi, senza convinzione. Non da meno sono stati i giornalisti, ancorati a una visione romantica del mestiere. Anziché cavalcare l’onda dell’innovazione tecnologica e della digitalizzazione, tutti i soggetti in campo si sono lasciati travolgere».
Intanto, però, gli editori hanno iniziato a risparmiare laddove potevano. In primis il costo del personale. In Italia non ci sono stati grandi licenziamenti come negli Stati Uniti. Il ridimensionamento delle redazioni, soprattutto locali, ha assunto forme silenziose, ma non meno efficaci. I redattori che man mano andavano in pensione non sono stati rimpiazzati. Un altro strumento utilizzato è stato quello dei pensionamenti anticipati che, in teoria, avrebbero dovuto coincidere con nuove assunzioni, favorendo il ricambio generazionale. In pratica, quando è andata bene, il rapporto è stato di tre a uno: per ogni giornalista andato a casa, un nuovo assunto. «Di fatto, interi pezzi di redazione sono stati cancellati e non rimpiazzati in modo adeguato», spiega De Core.
Una netta sforbiciata è stata data anche ai compensi dei collaboratori, diventati sempre più importanti per confezionare i prodotti dei giornali, ma non per questo più pagati. Sara ha collaborato con un quotidiano del gruppo Caltagirone, editore anche de Il Mattino, per anni prima di dire basta. Dopo l’ennesima decurtazione del compenso.
«Ho cominciato nel 2004, allora pagavano 25 euro netti, più la cassa di previdenza — racconta —. Poi ci hanno chiesto di aprire partita IVA, i costi dell’Inps sono diventati a carico nostro, finché nel 2021 è arrivata la botta finale con il nuovo tariffario.» Questo: dai sette ai venti euro per le cronache provinciali, dai tredici ai trentanove per l’edizione nazionale. Prendere o lasciare. Sara ha lasciato con rabbia: «Lavoravo giorno e notte, weekend inclusi. Sono una giornalista professionista, ho una laurea e un master. Mi sono sentita umiliata.»
In alcuni casi anche chi ha avuto la fortuna di strappare un contratto si ritrova con tutele ridotte. Un esempio è Citynews, un network che conta 56 testate, raccontando cosa succede in 56 città della Penisola. Quando si parla di giornalismo locale, è un’eccezione positiva nel panorama italiano, ma ai suoi dipendenti applica un contratto diverso da quello siglato dalla Federazione nazionale della stampa italiana e dalla Federazione italiana editori giornali, che prevede minimi contrattuali più bassi e figure redazionali diverse dal redattore, pagate meno. Una scelta che Luca Lani, amministratore delegato di Citynews, motiva con il fatto che «i giornali locali hanno introiti minori e un’organizzazione notevolmente diversa, ridotta, rispetto alle testate nazionali».
«Lo stipendio non basta. Per ora resisto, ma sto studiando per fare dei concorsi», dice un giovane dipendente.
Sempre più anziani, poveri e precari
Così la crisi dei giornali è anche la crisi dei giornalisti. La categoria è sempre più precaria, povera e vecchia. Già nel 2019 l’Istituto nazionale di previdenza dei giornalisti italiani (Inpgi) aveva registrato circa quindicimila giornalisti dipendenti a fronte di 44 mila lavoratori autonomi.
Una forbice che non smette di allargarsi almeno dal 2012. Secondo l’Agcom, i giornalisti under quaranta sono scesi di oltre il venti per cento nel giro di diciotto anni, passando dal 53 per cento del 2000 al 30 per cento del 2018. Solo il 28 per cento degli under trentacinque guadagna più di ventimila euro l’anno, contro il 57 per cento degli over cinquantacinque.
Alla questione economica, secondo alcuni giovani colleghi, se ne affianca una culturale che distingue l’Italia dall’estero. «Le redazioni sono chiuse, danno poco spazio ai giovani e hanno come prassi quella di non rispondere alle proposte, mentre testate internazionali come Al Jazeera danno sempre un feedback, anche se negativo. Come fai a offrire qualità ai lettori se tratti male chi scrive?», si chiede Tommaso Siviero, 28 anni, che ha ottenuto il suo primo contratto con Balkan Insight, un network investigativo bosniaco.
Un modus operandi che ha profonde conseguenze sulla salute mentale di chi scrive, come documenta un’inchiesta pubblicata su IrpiMedia. Alice Facchini racconta di aver avuto l’idea dopo aver deciso di partecipare a un evento di giornalismo investigativo ad Atene, anche se era al settimo mese di gravidanza, tanta era la paura di rimanere indietro. Così ha lanciato un sondaggio, a cui hanno risposto 558 colleghe e colleghi, scoprendo di non essere sola.
«L’87 per cento ha detto di soffrire di stress, il 73 di ansia, il 68 di senso di inadeguatezza — spiega —. Più della metà non dorme e uno su due si sente solo. Il 42 per cento parla di burnout, il 33 di depressione. Solo il 2 per cento ha detto di non aver mai avuto nessuno di questi problemi. La causa principale del disagio psicologico sono i compensi troppo bassi. Poi la precarietà, la reperibilità costante, i ritmi frenetici, l’ipercompetitività e l’ambiente giudicante».
Nessuno si salva da solo, ma ognuno a modo suo
Per Sara Manisera, pluripremiata giornalista d’inchiesta, soprattutto all’estero, «queste condizioni insostenibili creano anche un altro problema. Stiamo arrivando al punto in cui fa il giornalista solo chi proviene da una classe privilegiata e che, di conseguenza, porta avanti una certa visione del mondo.» Anche per evitare questa deriva, nel 2020 insieme ad altri reporter ha fondato Fada, un’organizzazione no profit che ha l’obiettivo di promuovere un giornalismo d’approfondimento e di interesse pubblico, con al centro i diritti, la giustizia e l’ambiente. Ma anche una visione del giornalismo meno competitiva e più orientata alla collaborazione.
«All’interno della rete condividiamo numeri di telefono, contatti delle redazioni, mettiamo a disposizione le nostre competenze per aiutarci a vicenda», spiega Manisera.
Se esperienze come Fada offrono una via collettiva, resta la domanda sul futuro dei giornali tradizionali. Un futuro ancora più incerto all’alba di una nuova rivoluzione: quella dell’intelligenza artificiale, che da una parte rischia di risucchiare tutto il traffico web e i già pochi ricavi a esso correlati, dall’altra di sostituire i giornalisti. Notizia di qualche settimana fa: a novembre 2024, gli articoli scritti dalle macchine hanno superato per la prima volta quelli scritti da esseri umani.
«Il mercato è sempre più difficile. I lettori vogliono contenuti brevi, sbrigativi. Ci muove il principio dello zapping. Non esiste un’alternativa che salvi tutti», osserva Luca Sofri, direttore editoriale e fondatore del Post. Proprio Il Post è stato a lungo considerato un modello: una testata nativa digitale che ha fatto del giornalismo esplicativo e dell’accuratezza i suoi punti di forza. Il sito è gratuito, ma propone una sottoscrizione per un’esperienza senza pubblicità, con podcast esclusivi, newsletter e incontri dal vivo. Così nel 2024 ha incassato 9,4 milioni di euro, il quinto anno consecutivo di utile dopo l’introduzione degli abbonamenti nel 2019. Ma lo stesso Sofri fatica a pensare che possa essere un modello per tutti: «Bisogna considerare caratteristiche specifiche che non sempre sono replicabili. E non credo che il piccolo successo del Post possa esserlo».