Indietro tutte: come la manovra Meloni rafforza le disuguaglianze di genere 


Articolo tratto dal N. 61 di Non è un lavoro per donne Immagine copertina della newsletter

La manovra Meloni

La relazione tra violenza maschile contro le donne e condizioni economiche non si configura in termini lineari: ha, invece, molte facce e si articola in maniera diversa nello spazio privato, nello spazio pubblico e in quello lavorativo (basti pensare al fenomeno delle molestie sui luoghi di lavoro).  

La manovra del governo Meloni, appena approvata, si occupa di violenza direttamente con il finanziamento del reddito di libertà, ma sembra voler schivare — più o meno apertamente — l’idea di violenza maschile contro le donne come un dato sistemico, e lo fa attraverso un doppio movimento: un passo a lato dei problemi strutturali che da decenni caratterizzano l’occupazione delle donne in Italia, e un passo — anzi due — decisamente indietro sul piano culturale e metodologico.

A lato dei problemi strutturali

I problemi sono ormai noti e ampiamente documentati: il tanto sbandierato record di occupazione femminile si ferma al 54,1%, con un divario di 17 punti percentuali rispetto agli uomini, al 71,3%. 

Quando le donne lavorano, il 31,5% lo fa part-time, quasi quattro volte più degli uomini, all’8%. Di queste, il 13,7% è in part-time involontario. 

La segregazione occupazionale è marcata: circa la metà dell’occupazione femminile si concentra in settori cruciali ma sistematicamente sottopagati (istruzione, sanità, lavori di cura, commercio), con un gap retributivo che supera il 20% in molti comparti. 

Le conseguenze si proiettano fino alla pensione: nel lavoro dipendente privato, le pensioni di vecchiaia delle donne sono inferiori del 44,1% rispetto a quelle degli uomini. Il 34,5% delle pensionate riceve meno di 1.000 euro al mese, contro il 21,4% dei pensionati. Il 23% delle donne over 65 è a rischio povertà, contro il 16% degli uomini.

Dati Istat sul lavoro part-time

Indietro verso il modello familista 

La manovra propone strumenti emergenziali dove servirebbero interventi strutturali, ma soprattutto sembra voler riportare le donne a un lavoro che non crea indipendenza economica ma piuttosto un reddito accessorio sufficiente per contribuire al sempreverde reddito familiare, senza mettere in discussione — anzi provando a restaurare — equilibri e ruoli consolidati. 

Il modello a cui si fa riferimento — quel binomio della tradizionale divisione dei ruoli di genere tra male breadwinner/female housewife, che nei corsi di sociologia presentiamo come prodotto di una società che usciva dalla guerra — emerge con chiarezza dall’impianto complessivo della manovra.

Non è un caso che il pacchetto si intitoli “misure per la famiglia e per le pari opportunità”: l’ordine non è casuale porta con sé un preciso universo valoriale che non guarda né al reale andamento del mercato del lavoro né alla composizione effettiva delle famiglie, che andrebbero — almeno quelle — declinate al plurale. 

Il riferimento alla decontribuzione per le aziende che assumono è emblematico di un approccio emergenziale. La manovra incoraggia, attraverso la decontribuzione, il passaggio dal lavoro a tempo determinato a quello indeterminato, obiettivo condivisibile, certo, ma con uno stanziamento inadeguato e soprattutto senza alcuna specificità che affronti le cause della minore occupazione femminile.

Non è, in altre parole, uno strumento che interviene sulla capillare e perdurante asimmetria di genere che caratterizza il mercato del lavoro. 

Ma è un’altra misura a rivelare con particolare chiarezza l’impianto familista della manovra: la decontribuzione per le aziende che facilitano il passaggio dal full-time al part-time per le donne con almeno tre figli. Vale la pena notare, come rileva Barbara Kenny su InGenere, quanto sia ristretta la platea dei beneficiari.

Le coppie con figli rappresentano il 33% delle famiglie italiane, e di queste solo una su dieci ha tre o più figli. La manovra costruisce una narrazione politica — “un governo a sostegno delle famiglie” — a fronte di un impatto limitatissimo sia in termini di copertura che di risorse effettivamente impegnate. 

È una misura che incentiva, ma solo per le madri, la transizione da un lavoro pagato a un lavoro non pagato: quello di cura, riproducendo una divisione sessuale del lavoro che sarebbe da superare e che invece viene normalizzata e ri-naturalizzata.  

Proteste in Europa per eliminare il pay gender gap

Un (dis)incentivo alla natalità

È una scelta che va indietro anche rispetto a quello che sembra essere l’obiettivo dichiarato della manovra: il sostegno alla natalità. Come mostrano tutti i rilievi statistici, si fanno più figli nei paesi in cui le donne lavorano di più e con più qualità, e in cui esiste un sistema di welfare adeguato.

Questi due elementi creano le condizioni per una cultura della condivisione del lavoro di cura — quella dimensione che manca strutturalmente nel nostro paese e che questa manovra non solo non intende scalfire, ma anzi consolida. 

Il riferimento alla lavoratrice-madre come soggetto disposto a lasciare un lavoro a tempo pieno e retribuito per dedicarsi a un lavoro non pagato di cura non facilita certo la condivisione dei compiti genitoriali.

Non è un caso che l’allargamento dei congedi parentali resti strutturato come misura intercambiabile tra i genitori — formula che, nei fatti, si traduce quasi sempre in un utilizzo femminile. 

E c’è un’assenza significativa in tutto questo impianto: il mondo delle giovani donne che figli non ne hanno. Quelle che legittimamente non vogliono farne, ma anche quelle che hanno un legame così fragile e precario con il mercato del lavoro — contratti instabili, salari inadeguati, prospettive incerte — da non poterselo permettere. Per loro, questa manovra non ha molto da dire. 

Bonus invece di diritti 

La questione che merita forse l’attenzione maggiore riguarda il metodo: lo strumento dei bonus. In un momento in cui molte famiglie faticano ad arrivare alla fine del mese, quei 40 euro in più sulla busta paga o sui redditi delle lavoratrici autonome — elargiti dal cosiddetto “bonus mamme” — possono anche arrivare come un sollievo immediato.

Ma dal punto di vista del metodo, aumentano il senso di non-indipendenza delle donne, che ricevono non da un lavoro tutelato e retribuito adeguatamente, ma dallo Stato-benefattore, una sorta di riconoscimento per svolgere il proprio ruolo di madri. 

È questo slittamento a rappresentare forse il vero passo indietro culturale di questa manovra. Piuttosto che promuovere l’indipendenza economica delle donne, alimenta la dipendenza e la allarga: non più dal «capofamiglia», ma dallo Stato che elargisce bonus invece di garantire diritti, infrastrutture sociali, e il diritto alla piena occupazione.

Un salto nella storia: picchetto femminile durante lo sciopero delle sarte, Usa, 1910

Riferimenti

Barbara Leda Kenny, La finanziaria della famiglia, inGenere, 24 ottobre 2025. 

CNEL & ISTAT, Il lavoro delle donne tra ostacoli e opportunità, Rapporto, 6 marzo 2025. 

European Institute for Gender Equality (EIGE), Financial Independence and Gender Equality: Joining the Dots Between Income, Wealth, and Power, Publications Office of the European Union, 2024. 

Sandra Burchi & Barbara Poggio, Il lavoro part-time: analisi e implicazioni, Provincia Autonoma di Trento – Agenzia per la Coesione Sociale, 2024.