Le vite ai margini dal Mediterraneo alle periferie d’Europa 


Articolo tratto dal N. 37 di LavorAI, se gli umani non servono più Immagine copertina della newsletter

Due scenari un solo destino

Considero due diverse scene che abbiamo davanti e che mi sembrano avere, nel tempo, l’eventuale possibilità di condividere lo stesso destino.  Quando la leadership israeliana oggi al potere e l’amministrazione Trump parlano del possibile futuro non parlano della sua popolazione, ma della messa a reddito di un territorio in cui, al di là dei suoi utilizzatori, si prevede solo «servitori a basso costo» se non invisibili, meno visibili possibile. Allo stesso modo, se ci spostiamo alle nostre latitudini (in occidente), l’offerta di futuro alle aree un tempo industriali e luogo di manifatture (due esempi per capirsi: Taranto e per altri versi Venezia) è la seguente: dismissione e distruzione dei legami sociali per chi le abita. Ovvero: popolazioni locali (quelle che rimangono o che «si ostinano a rimanere») trasformate in «attori servizievoli», da cui ci si attende un atteggiamento di «muti e rassegnati». In breve: individui «grati» qualsiasi sia l’offerta che arrivi (ammesso che arrivi). 

La differenza tra i due scenari permane tutt’oggi

A massacro in corso, l’accostamento può risultare una provocazione inaccettabile. Nel primo caso (a Gaza) è una guerra feroce che ci impone delle domande. Ma l’offerta di futuro che viene proposta nel nostro mondo non è troppo differente e non è che, per quanto distanti dal fronte di guerra in corso, le aree riconoscibili nel secondo campo siano poi così esenti da un destino del tutto dissimile a quello del primo caso. La risposta alternativa, in entrambi i casi, sta nel replicare con pratiche che nascono dal sentirsi comunità a partire dalla frattura delle comunità di sangue o di classe che connotano e marcano le identità dei gruppi umani presenti sul campo. 

Capisco che il paragone tra le due “scene” può apparire azzardato – e certamente urticante, nel pieno di una strage che deve finire – quindi provo a spiegarmi. 

Alcuni giorni fa attivisti di Omdim Beyachad, movimento che raccoglie ebrei israeliani e palestinesi, si sono messi in marcia verso Gaza con l’obiettivo di rompere il muro di gomma e fare in modo che gli aiuti umanitari arrivino nella striscia e siano distribuiti alle popolazioni. Non è detto che l’azione raggiunga lo scopo, ma serve per dire esplicitamente che il futuro è possibile solo se cessiamo di considerare la comunità di appartenenza come unica chance di futuro. Un futuro di uguaglianza e di giustizia sociale è possibile solo insieme e oltre la propria comunità di sangue, di famiglia, di cultura, di fede. 

Manifestazione di Omdim Beyachad a Gerusalemme

Desertificazione sociale e crisi del lavoro

Consideriamo ora i luoghi desertificati dall’economia industriale progressivamente a partire dalla crisi del fordismo. Nel tempo questo ha contribuito allo smantellamento del sistema pubblico, alla ricerca di tutele fondate sul reddito possibile, e in breve ha portato alla decomposizione delle politiche pubbliche di tutela, di cura, di garanzia. 

Quello che era stato offerto come «opportunità» (a patto appunto dell’abbandono del welfare) si accredita come l’allargamento della forbice tra bisogni (che aumentano) e tutele (che si eclissano). In questo quadro «jobless» non è l’utopia della scomparsa del lavoro come pena, bensì lavoro al costo più basso possibile e senza costi aggiuntivi. L’immagine è quella della struttura sociale dei grandi velieri in Età antica: una selezione scelta di guerrieri e di mercanti in plancia, un’umanità innumerevole di operatori silenziosi, facilmente sostituibili, che sotto – in silenzio e invisibile – rema. 

Un futuro per tutti

Questo sarà il destino, a meno che non si agisca per costruire percorsi alternativi. Percorsi che partono da un primo dato: definire preliminarmente un patto per lo sviluppo che nasce dal sentirsi comunità. Anche in questo caso: un futuro di uguaglianza e di giustizia sociale è possibile solo insieme. 

Sentirsi comunità non significa maturare una politica dell’appartenenza senza porte né finestre il cui fine è impedire l’accesso da fuori o agli «estranei». Significa mobilitarsi per sostenere politiche di reciprocità, iniziative volte alla crescita comune, investimento e impegno di risorse per favorire processi che nascono dal principio di pari opportunità. Ovvero: provare a inventare, dare gambe e praticare una politica di patto che ha come presupposto farsi carico di un futuro per tutti. 

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