Lavorare da uomini liberi o da sudditi? 


Articolo tratto dal N. 58 di Il lavoro ci (s)finisce Immagine copertina della newsletter

Consideriamo due ipotesi diverse. 

La prima. Sottolinea Axel Honneth nel suo Il lavoratore sovrano (il Mulino), che il lavoro oggi, non è più identificabile con il lavoro industriale.  Lavoro è, anche, quell’insieme di attività (spesso non retribuite) che consentono la riproduzione sociale. Per questo propone di favorire quelle iniziative (in particolare le cooperative di lavoratori) che si muovono in direzione opposta alla atomizzazione. Il fine è incrementare e allargare la partecipazione. 

 Honneth individua cinque condizioni minime per consentire a tutti i lavoratori di partecipare al processo democratico senza vincoli sociali o psicologici. Più precisamente: 

  • un reddito minimo; 
  • disporre di tempo sufficiente per seguire gli eventi e i dibattiti politici in modo da potersi impegnare, se lo si desidera, nell’arena pubblica; 
  • riconoscimento pubblico del lavoro che si svolge; 
  • beneficiare di un diritto minimo di codeterminazione delle modalità di lavoro e degli obiettivi del proprio impegno; 
  • livello minimo di complessità e rigore intellettuale in ogni lavoro, per evitare gli effetti psicologici disastrosi di lavori passivi e ripetitivi. 

Ora consideriamo la seconda ipotesi. A proporla è Massimo De Carolis nel suo Rifeudalizzazione, (Gramma). 

De Carolis insiste su due tratti. 

  • centralità di un legame sociale basato sullo scambio tra autorità e fedeltà. All’opposto della concezione paritaria su cui poggia l’ideale moderno di un «contratto sociale» tra cittadini liberi e eguali, quello che qui entra in gioco è un patto asimmetrico di affiliazione o vassallaggio, in cui uno dei due poli acquista il monopolio dell’autorità mente l’altro si impegna all’obbedienza. 
  • Simbiosi tra denaro e potere, tra economia e politica. Pur rimanendo parametri distinti – precisa de Carolis – denaro e potere fungono all’atto pratico, da criteri interscambiabili del patto, potendo figurare entrambi sia come misura dell’autorità di chi occupa la posizione di comando, sia come premio per la fedeltà degli affiliati. 

Una ipotesi diversa e complementare, non opposta, rispetto a quella di Honneth. 

Il sottotesto di entrambi è che senza intraprendere un percorso che ridia dignità al lavoro, il rischio è quello di procedere a passi rapidi verso la schiavitù. 

Percorso opposto a quello che sta all’inizio del percorso verso la libertà che inaugura quel tempo che intende abolire il privilegio. Progetto che risale a 350 anni fa e che ha un capostipite: Baruch Spinoza. 

Il nodo sta nella definizione di «uomo libero» e di «schiavo» che Spinoza propone nel Trattato politico, laddove la soglia consiste nel sentirsi dipendenti da qualcuno tanto da non prendere nemmeno in considerazione l’ipotesi di ribellarsi [Trattato Politico, cap. II, §.X]. Una condizione che ha il suo fondamento nell’obbedienza e che nel tempo dà luogo alla consuetudine, al fatalismo, alla convinzione che l’ordine sia immodificabile.  [Trattato Politico, cap. V, §. IV]. La conseguenza è l’eclissi della libertà. 

Forse è una distinzione troppo netta, ma serve per capire dove passa il confine tra libertà e obbedienza, in un tempo in cui la parola disobbedienza sembra spesso essere indicata come «tradimento». 

Non solo. Serve anche a capire ciò di cui ci mettono in guardia sia Axel Honneth sia  Massimo De Carolis: la mancanza di una dimensione collettiva delle rivendicazioni politiche e del lavoro significa aprire le porte alla schiavitù.