Alcuni dati
Non conoscere il reddito familiare. Non poter avere un bancomat. Sentirsi chiedere conto di ogni spesa, vedersi impedire di lavorare. La violenza economica ha gesti quotidiani, ripetuti, spesso invisibili a chi guarda da fuori.
Secondo i nuovi dati Istat sulla sicurezza delle donne, che aspettavamo dal 2014, il 6,6% delle italiane l’ha subita da un partner nel corso della vita. Tra chi non si considera economicamente indipendente, la percentuale sale al 42,4%.
È in questo intreccio di controllo e restrizione dell’autonomia finanziaria che la violenza economica prende forma, ed è qui che si vede con chiarezza il legame tra dipendenza e vulnerabilità: più una donna dipende economicamente dal partner, più è esposta a limitazioni, esclusione dalle decisioni, violenza.
Per Marcela Lagarde, antropologa e politica messicana, il femminicidio è «la forma estrema di violenza di genere contro le donne, prodotto della violazione dei loro diritti umani, nella sfera pubblica e privata, sostenuta dall’impunità sociale e statale».
Crimini di stato, perché la mancanza di risposta istituzionale è parte integrante del fenomeno.

Povertà delle donne: un fallimento collettivo
Dal punto di vista della prevenzione, se guardiamo ai dati sulla violenza di genere in Italia, la mancata risposta è soprattutto quella del sostegno all’emancipazione economica delle donne: nel nostro paese il tasso di occupazione femminile è fermo al 55% (Eurostat), venti punti sotto la media europea, a conferma di un sistema che non permette alle donne di entrare e restare nel mercato del lavoro con la stessa continuità degli uomini.
E con lo stesso stipendio.
Secondo l’ultimo rendiconto di genere di Inps, relativo al 2024, fra i principali settori economici la differenza di salario tra uomini e donne è pari al 20% nelle attività manifatturiere, 23,7% nel commercio, 16,3% nei servizi di alloggio e ristorazione, 32,1% nelle attività finanziarie, assicurative e servizi alle imprese.

E con la maternità?
La distanza cresce enormemente quando entra in gioco la maternità: il differenziale retributivo può arrivare fino al 40% e continua ad ampliarsi dopo il primo figlio (Inapp), in un paese che fatica a garantire servizi per l’infanzia e che considera ancora la cura dei figli come un “naturale” destino femminile.
A questa fotografia si aggiunge il tempo dedicato alla cura non retribuita: il 73% è svolto dalle donne (Istat, Uso del tempo, 2023). Tempo sottratto alla formazione, al tempo libero, alla possibilità di cambiare lavoro, di negoziare un aumento, di immaginare un futuro diverso.
È un’assenza di libertà che non appare nelle statistiche economiche tradizionali, ma che definisce l’orizzonte reale delle possibilità di milioni di donne.
È importante sottolineare che questi dati non descrivono scelte individuali, ma un fallimento collettivo. In un paese in cui la povertà colpisce più le donne che gli uomini, in cui i contratti precari e part-time “involontari” sono la norma per le lavoratrici, e in cui i servizi pubblici non permettono una reale conciliazione, la dipendenza economica non è una condizione accidentale: è il riflesso diretto di politiche che non considerano il lavoro femminile come un pilastro dello sviluppo.

Un adattamento a un sistema ingiusto
Gli stereotipi di genere poi continuano a influenzare la scelta delle carriere e limitano le opportunità per le donne di entrare in settori dominati dagli uomini: l’Eige, l’Istituto europeo per la parità di genere, sottolinea infatti come le donne siano sovrarappresentate nei settori a basso reddito, come sanità e istruzione, e sottorappresentate in quelli ad alta retribuzione, come tecnologia e ingegneria.
L’economista Corinne Low, nel suo libro Femonomics (2025), propone un ribaltamento necessario: considerare le donne come agenti economici razionali, che prendono decisioni realistiche all’interno di vincoli che non hanno scelto.
Non sono le preferenze individuali a produrre disuguaglianze, ma i limiti strutturali, economici e biologici entro cui siamo costrette a muoverci.
Ciò che appare come una scelta personale, come stare a casa con i figli, rinunciare a un lavoro, accettare un part-time, è spesso un adattamento razionale a un sistema ingiusto.
E finché l’Italia continuerà a mancare l’obiettivo di garantire alle donne la possibilità di costruire una vita autonoma, la violenza resterà un esito strutturale, non un’eccezione.