Nella discussione pubblica su ciò che sarebbe auspicabile prima dell’irreparabile, è tornata la proposta “due popoli, due stati”. Ovvero rivisitato e corretto quel processo che timidamente aveva preso forma nella prima metà degli anni ’90 con gli accordi di Oslo.
Ha scritto Ugo Tramballi, che “se fra israeliani e palestinesi apparirà una generazione di cittadini stanchi di tutto questo e desiderosi di convivere, è a Oslo che dovranno tornare. I loro leader non dovranno inventarsi nulla ma solo riprendere dove le cose erano state lasciate. Perché nonostante tutto, una pace è già stata scritta”.
Dubito che quel processo possa realizzarsi in questo nostro tempo.
Per prendere la misura di quella possibilità bisogna comprendere quando quel processo si fermò.
Due popoli, due Stati
Secondo Christian Jouret (diplomatico francese e vice direttore di Orient XXI) quel processo già nato incerto e comunque squilibrato perché Arafat, e dunque l’OLP, riconosceva il diritto a esistere di Israele, mentre Rabin, riconosceva il diritto dell’Olp a rappresentare i palestinesi ma non si impegnava a riconoscere uno Stato palestinese.
Secondo altri quel processo fu definitivamente sepolto, prima con l’assassinio di Yitzhak Rabin il 4 novembre 1995, poi con il primo governo Netanyahu nel 1996, poi con la rete degli attentati suicidi da parte di palestinesi tra 1995 e 1998, infine con la passeggiata di Ariel Sharon sulla spianata delle moschee (28 settembre 2000).
Se consideriamo i fatti indubbiamente la sequenza è tutta vera. Ma i processi di trasformazione in politica non sono i fatti e non sono conseguenza di fatti. I processi politici sono l’effetto disposto di condizioni e quelle condizioni vanno analizzate.
È importante sottolinearlo perché la possibilità di riprendere quel filo spezzato discende dall’individuare i nodi strutturali che lo realizzarono e non dalla ripetizione delle scene.
La genealogia del processo: attori, fatti e interruzioni
Quella che dobbiamo indagare è la genealogia della scena.
La scena è quella sul prato della Casa Bianca il 13 settembre del 1993.
Ci sono dei protagonisti in quella scena, indubbiamente e assassinare Rabin è stato il modo per rendere evidente che quella scena si trovava su un binario morto.
Dunque, è ciò che precede, non ciò che segue quella scena che occorre indagare per capire la messa a tacere di un processo.
Quel processo ha un inizio molto lontano e non nasce all’interno di giochi diplomatici, o di Segreterie di Stato. Ha come motore primo la politica e la costruzione di movimenti e la presenza sulla scena di personalità politiche. Il combinato disposto di questi tre diversi fattori rende possibile quella strada.
Nel febbraio 1983, il leader socialista portoghese Mário Soares invita formalmente l’OLP a inviare un osservatore al congresso dell’Internazionale Socialista dell’aprile 1983 a Sydney. Il primo ministro laburista australiano, Bob Hawke, si oppose fermamente all’invito dell’OLP; e il congresso dell’IS è trasferito ad Albufeira, in Portogallo. Issam Sartawi fu scelto dall’OLP come suo rappresentante a questo incontro in Portogallo. Non è una scelta casuale. Sartawi ha già dato vita a metà degli anni ’70 a iniziative con esponenti israeliani pacifisti (Matti Peled) iniziative congiunte di dialogo. Chi le promuove sono due personalità europee appartenenti a famiglie politiche diverse: da una parte dall’ex premier francese Pierre Mendès France di area liberale, dall’altra Bruno Kreisky, lead socialdemocratico austriaco.
Poiché l’IS contava sia il Partito Laburista Israeliano che l’OLP tra i suoi membri, si sperava che tale incontro potesse promuovere il processo di pace in Medio Oriente.
Il 10 aprile 1983, Sartawi è ucciso a colpi d’arma da fuoco nella hall dell’Hotel Montechoro ad Albufeira, in Portogallo. L’uomo armato, Yousef Al Awad, riesce a fuggire. L’assassinio di Sartawi (in seguito rivendicato dall’Organizzazione Abu Nidal) si ritiene che sia stato eseguito per frustrare gli sforzi di Sartawi per raggiungere la pace.
Ma ciò non interrompe il processo.
Quel processo è possibile perché ci sono forze nell’area dell’ANP che credono a un percorso di pace, perché ci sono forze che dentro l’opinione pubblica israeliana che ritengono che non ci sia che una sola strada. Ma soprattutto quel processo è possibile perché ci sono forze fuori dai due avversari che costruiscono condizioni perché quel dialogo sia possibile.
Queste forze inizialmente sono rappresentate dall’Internazionale socialista che già in quel tempo si muove – in forza della presidenza Willy Brandt e in sintonia con il leader socialista austriaco Bruno Kreisky e quello socialista svedese Olaf Palme, dentro un profilo che prova a scardinare il blocco della guerra fredda.
Nel corso degli anni’80 quel percorso è ancora espressione di aree politiche che provano a forzare e a rompere il quadro degli equilibri propri della “guerra fredda”.
La crisi dell’Unione Sovietica nel 1991 lascia sul campo una sola forza internazionale, gli Stati Uniti.
Quel dialogo a lungo stentato può dunque avviarsi, ma nei fatti a due condizioni: da una parte prendendo atto che occorre una parte terza che obblighi i due contendenti storici a coabitare, dall’altra il fatto che quella funzione di patronage è conseguente a sapere che ciascuno dei due contendenti deve fare un passo indietro sulla sua dimensione nazionalista.
Arrivare a un accordo è possibile solo riconoscendo i propri limiti. Ovvero non raccontandosi una storia di nazionalismo.
Idee, fallimenti e l’orizzonte mancante della convivenza
Provare a convivere, come aveva intuito e scritto Judah L. Magnes (1877–1948) nel 1947 con Hannah Arendt la soluzione del conflitto non può passare attraverso l’esclusivo diritto di autodeterminazione per gli ebrei, ma attraverso un compromesso che garantisca la parità di diritti tra arabi ed ebrei e una condivisione delle risorse e del territorio.
Il testo di Rapporto sulla Palestina (il testo è leggibile qui) propone un sistema che crei una Palestina binazionale, piuttosto che uno stato ebraico esclusivo. Magnes sostiene che quest’ultimo avrebbe portato a una conflittualità permanente con la popolazione araba, mentre una convivenza fondata su princìpi di giustizia e uguaglianza avrebbe avuto più probabilità di portare alla pace duratura. La sua proposta era radicale per l’epoca.
Rapporto sulla Palestina è anche un appello alla responsabilità morale della comunità ebraica e alla necessità di una visione lungimirante per il futuro della Palestina.
Utopia, certamente. Ma il suo fondamento è un sistema di garanti capace di investire sulla pratica e sull’idea di convivenza. È esattamente ciò che non c’è oggi e che probabilmente sarà assente per molto tempo.
C’è stato un tempo, tra anni ’80 e primi anni ’90 che quella possibilità era percepibile in attori politici che erano disposti a «sporcarsi le mani» per pensare convivenza. Oggi quell’orizzonte è scomparso.
Il nostro è il tempo dei sovranismi. Ovvero un tempo non vede altro che potenze che pensano al dominio proprio. Stati Uniti, Cina, India, per non parlare dell’UE, una sigla che non corrisponde a un progetto, non hanno alcun interesse a promuovere un quadro di convivenza. Non rientra nella loro cultura politica.
Rabin muore nel 1995 in relazione a una mobilitazione politica interna che lo raffigura come un traditore essenzialmente per questo fatto. Allo stesso tempo Arafat perde la sua scommessa politica per lo stesso motivo, perché all’interno del mondo palestinese l’accordo eventuale è percepito come venir meno alla propria identità.
Il resto del mondo non ha alcun interesse a pensare un dopo. È troppo impegnato a garantirsi la rendita di posizione di ora, pesandolo come un tempo senza domani. Esiste solo oggi. E oggi è il tempo del non rispetto dell’altro. Auspicabilmente della sua eliminazione.