L’economia soffre da tempo di una crisi di visione: esistono alternative ai paradigmi classici e neoliberali, dobbiamo scoprirle e diffonderle.
Dalla crisi finanziaria globale del 2007-2008 sentiamo ripetere come la fede nei mercati e la sfiducia nello Stato continuino a sopravvivere, crisi dopo crisi, e come categorie economiche fondamentali – produttività, competitività, efficienza – si siano progressivamente staccate dalla realtà. Ma la domanda che vorrei porre è: come siamo arrivati al punto in cui questo modo di vedere l’economia è diventato l’unico che possiamo immaginare?
Se vogliamo comprendere il nostro attuale stallo economico, dobbiamo interrogare non solo gli effetti politici del neoliberismo, ma anche l’infrastruttura epistemica che lo sostiene – cioè il modo in cui l’economia stessa ha plasmato ciò che possiamo immaginare come possibile.
Da almeno cinquant’anni insegniamo a generazioni di decisori politici e cittadini a pensare all’economia come a un ambito neutro e tecnico dell’ottimizzazione: uno spazio dove si prendono “decisioni difficili” in condizioni di scarsità, modellate attraverso equazioni, avulse dal conflitto, dall’etica e dalla decisione collettiva.
“Pensare come un economista”, si insegna già dalla prima settimana di un corso di laurea in Economia, significa considerare la vita umana come un insieme di scelte ottimali in condizioni di scarsità; giudicare il successo attraverso crescita, efficienza e competitività; trattare l’incertezza come un difetto da eliminare con un modello.
Questo stile cognitivo è diventato così pervasivo che ora struttura il modo in cui i governi disegnano le politiche, i media raccontano le crisi, persino il modo in cui valutiamo noi stessi. Produce una forma curiosa di realismo depoliticizzato: la convinzione che una buona politica debba assomigliare a un’analisi costi-benefici e che emozioni, cura o giustizia appartengano ad altri ambiti. I “bravi economisti” sono educati a non preoccuparsi della politica, del benessere, della natura, della sofferenza.
Problema numero 1: come l’economia è diventata “senso comune”
Come sostiene Philip Mirowski in Never Let a Serious Crisis Go to Waste (2013), si è verificato un “matrimonio perfetto” tra la teoria neoclassica (con la sua fede nella razionalità, nell’equilibrio e nell’ottimizzazione) e la politica neoliberista, che ha elevato il mercato a forma ideale di coordinamento sociale. Questa unione non è stata naturale né inevitabile. È stata costruita attraverso l’emarginazione delle tradizioni dissenzienti (marxista, istituzionalista, femminista, ecologica, post-keynesiana); attraverso la trasformazione dell’insegnamento dell’economia e il restringimento di ciò che viene considerato scientifico o rigoroso; e attraverso l’esportazione di questa visione del mondo da parte delle istituzioni internazionali e dei media del Nord globale.
Serve inoltre convenientemente gli interessi delle imprese e del capitale, presentando profitto, sfruttamento e disuguaglianza come conseguenze naturali dell’efficienza. Con il tempo, l’economia ha smesso di essere un modo per discutere di valori ed è diventata un modo per mettere fine al dibattito. Ha creato un accordo collettivo inconscio secondo cui non esistono alternative, secondo cui i principi economici non devono essere messi in discussione e devono essere posti al di sopra di tutto e tutti.
Problema numero 2: le conseguenze epistemiche del monismo
A causa di questo monismo intellettuale, categorie economiche fondamentali come crescita, competitività e produttività non sono descrittori neutri, ma strumenti di governo.
Definiscono cosa viene considerato un problema, cosa viene considerato una soluzione e persino cosa viene considerato conoscenza.
Ecco perché, anche dopo il 2008, la fede nei mercati ha resistito: il linguaggio con cui pensiamo l’economia rende le alternative letteralmente impensabili. È anche il motivo per cui la nozione da manuale di “impresa” non corrisponde più alla realtà delle multinazionali globali, eppure continuiamo a usare lo stesso schema analitico.
Se il neoliberismo ha superato ogni crisi, non è perché abbia ragione, ma perché ha colonizzato il nostro immaginario sociale.
Abbiamo perso il linguaggio per descrivere economicamente qualsiasi altra cosa. Persino la transizione ecologica è incorniciata nei termini della “crescita verde” invece che nei limiti ecologici o nella redistribuzione; la spesa sociale e le infrastrutture del welfare vengono trattate come “costi”, come se la cura e la sostenibilità fossero lussi, invece che precondizioni della vita.