Femminicidio?
È una lunga storia…


Articolo tratto dal N. 61 di Non è un lavoro per donne Immagine copertina della newsletter

Ambivalenze del discorso pubblico

L’evocazione della dimensione storica nel dibattito pubblico sulla violenza contro le donne oggi si struttura in modo ambivalente.

Consumati non di rado con efferatezza e premeditazione e avverandosi spesso in contesti di intimità romantica, i femminicidi tendono a essere percepiti da un lato come un’emergenza tutta contemporanea, frutto marcio di una presunta società (di solito giovanile) disorientata da una libertà dei costumi e dalla crisi di alcuni modelli in corso nella nostra modernità.

Allo stesso tempo e di contro, serpeggia una retorica atavistica che, alla luce della durata millenaria del fenomeno, iscriverebbe la violenza domestica nella natura maschile, essenzializzandola e di fatto scoraggiando le speranze di intervento per la sua eliminazione, a cui la data del 25 novembre è proprio dedicata.

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Una prospettiva storica

A fronte di queste letture marcatamente biased, le scienze umane e sociali hanno lavorato sui contesti particolari per restituire al femminicidio la sua complessità.

La storia delle donne e di genere in particolare ha contribuito a rilevarne continuità e trasformazioni nel tempo, confermandone l’estrema diffusione nel passato europeo (e non solo) ma soprattutto svelando le modalità socio-culturali e i dispositivi politici, giuridici e scientifici con cui questo tipo di violenza si è potuta perpetuare.

Si tratta di una prospettiva, quella storica, eminentemente accolta da due importanti documenti adottati dalla comunità internazionale per contrastare il fenomeno: la Dichiarazione sull’eliminazione della violenza contro le donne, emessa dall’Assemblea generale dell’Onu nel 1993, e la cosiddetta Convenzione di Istanbul, promulgata dal Consiglio d’Europa nel 2011, entrambe concordi nel definire la violenza contro le donne «una manifestazione delle relazioni di potere [di genere, ndr] storicamente diseguali». 

Dobbiamo risalire almeno all’antica Roma per rintracciare le origini della legittimazione giuridica del femminicidio – sebbene sia un anacronismo  utile a cogliere la specificità di questo tipo di omicidi anche quando commessi in altre epoche.

In modo particolare, già nell’Impero Romano era concesso al marito uccidere la moglie adultera, in virtù di una norma sopravvissuta per secoli nei codici europei, ribadita nel c.p. napoleonico del 1810, quindi rinvigorita dalla «causa d’onore» nel codice Zanardelli del 1889 (art. 377) e persino elevata a reato autonomo con il codice Rocco del 1930 (art. 587).  

Ancora a Novecento inoltrato dunque i mariti imputati di uxoricidio potevano ricevere un consistente sconto di pena (fino all’assoluzione, con le varie attenuanti) se durante il processo in Corte d’assise erano in grado di dimostrare il tradimento muliebre – se effettivamente consumato o solo supposto risulta quindi relativamente importante.

Peraltro, non va sottovalutato l’uso strumentale di questa legge invalso nelle pratiche, laddove l’assenza del divorzio, introdotto nell’ordinamento italiano nel 1970, metteva gli uomini nelle condizioni di potersi risposare in caso di morte della coniuge (e in pochissimi altri casi estremi).

È il proverbiale divorzio all’italiana. Soltanto nel 1981 e dopo molteplici tentativi la legge n. 442 abrogò la fattispecie penale del delitto d’onore, sulla scorta delle pressioni del movimento femminista e più in generale del cambiamento dei costumi sessuali degli italiani e delle italiane, non ultimo il tramonto dei codici dell’onore classicamente inteso.

Solo nel 1981 fu abrogata la legge sul delitto d’onore

Oltre il delitto d’onore

In verità il cosiddetto delitto d’onore si configura solo come una delle diverse fenomenologie criminose ricondotte sotto la categoria di femminicidio, accanto a quella dei sexual femicides, dei femminicidi-suicidi e della intimate partner violence (a cui lo stesso uxoricidio è ascrivibile).

È un dato importante da considerare per fare ipotesi circa le ragioni storiche del persistere dei femminicidi nonostante la pur fondamentale svolta giuridica del 1981 e le leggi in materia promulgate negli ultimi vent’anni, quando il tema della violenza di genere si è imposto con forza nell’opinione pubblica e nelle agende politiche. 

Uno sguardo ai femminicidi avvenuti in età liberale – un terreno di ricerca avviato ma ancora in larga parte da esplorare – offre infatti degli spunti interessanti a questo proposito, a partire dalla constatazione non scontata di come, all’epoca come oggi, le donne venivano ammazzate non soltanto in quanto mogli adultere (o presunte tali) ma anche in quanto fidanzate decise a interrompere una relazione romantica oppure in seguito a una lunga serie di maltrattamenti e/o liti coniugali oppure ancora al termine di una violenza sessuale.

In aggiunta a questo, l’esame delle retoriche giustificazioniste diffuse nei tribunali, nella cronaca o nei congressi scientifici evidenzia la prevalenza di richiami non limitati ai valori dell’onore, ma anche a quelli della follia e della passione (romantica).

In altre parole, gli autori di femminicidio già circa un secolo e mezzo fa, nel Regno d’Italia, uccidevano le proprie ex-fidanzate “in preda a un raptus o “per ragioni d’amore”, secondo un copione che ci suona familiare.

In questo quadro il delitto d’onore appare allora come la punta dell’iceberg di una varietà di violenze legate al genere e di un armamentario di narrazioni assolutorie con una storia più lunga e più solida di quella che pensiamo. 

Il graduale processo di stigmatizzazione dell’onore come concetto e sentimento con cui giustificare forme di giustizia privata che l’Italia ha conosciuto nel secondo dopoguerra non è evidentemente sufficiente a porre fine ai femminicidi. Seguendo gli stimoli provenienti dalla critica transfemminista, occorre riflettere collettivamente sui significati che attribuiamo alla «relazione sentimentale» e alla «famiglia», due dimensioni in cui il vincolo affettivo si offre come un dispositivo duttile e rischioso, e nelle pratiche e nei discorsi, non esente dall’influenza di dinamiche di potere di matrice gender. Per questo occorre che esperti ed esperte del settore promuovano l’educazione sessuo-affettiva nelle scuole e più latamente nello spazio pubblico e privato, aiutando le donne a smascherare la romanticizzazione della violenza e soprattutto gli uomini a diseducarsi al possesso e a rispettare il consenso.

In questo sforzo per il cambiamento, la ricerca storica si rivela una scienza utile in concerto con gli altri saperi nella misura in cui favorisce la comprensione delle radici storico-culturali del fenomeno, disarticolando quei nessi a partire dai quali la violenza di genere ha potuto realizzarsi e legittimarsi.

Numero nazionale per denunciare violenza e stalking: 1522