Disinformazione di massa e attacco contro l’Iraq 


Articolo tratto dal N. 59 di L'ultimo numero: dentro la crisi dell'informazione Immagine copertina della newsletter

La possibile nomina di Tony Blair a capo di un’“autorità transitoria” (GITA), nell’ambito dell’accordo di cessate il fuoco promosso da Donald Trump a Gaza, ha evocato in tutto il Medio Oriente — e non solo — due penosi ricordi: il ritorno di un “governatore inglese” che richiama l’infamante mandato britannico sulla Palestina; e l’idea di rimettere in scena un leader simbolo, insieme a George W. Bush, della menzogna più assassina del ventesimo secolo. 

L’affermazione — rivelatasi un falso storico — secondo cui Saddam Hussein stesse sviluppando nel 2003 armi di distruzione di massa costò la vita a centinaia di migliaia di persone. L’Iraq è tuttora in balìa di gravi problemi politici e di sicurezza, mentre le sue terre e i suoi fiumi sono irrimediabilmente avvelenati e la regione devastata.

L’impunità occidentale 

La lezione che possiamo invece trarre da questa “promozione” di Tony Blair, nuovo simbolo dell’impunità occidentale, è semplice: nessuno, dalle autorità ai media occidentali, ha voluto assumersi le proprie responsabilità nella falsificazione delle prove. 

Nel 2004, di fronte alla schiacciante realtà che in Iraq non era stata trovata alcuna arma di distruzione di massa, il New York Times e il Washington Post pubblicarono riflessioni che, pur senza scusarsi, riconoscevano che “avrebbero potuto fare di meglio”. Altri giornalisti si sono giustificati con scuse da adolescenti: erano “giovani”, “non conoscevano l’Iraq”, oppure “erano stati colti di sorpresa”. Tuttavia, Judith Miller, la giornalista licenziata dal New York Times per aver amplificato la propaganda dell’amministrazione Bush ed essere divenuta un’icona della disinformazione, continua a offrire — senza essere rimessa in discussione — le sue analisi sui canali statunitensi. E se, per il ventesimo anniversario dell’invasione nel 2023, la squadra di giornalisti della Knight Ridder — tra i pochi media statunitensi che smascherarono le falsità — è stata celebrata, il resto dei media coinvolti nella fabbricazione delle notizie ha versato poche lacrime di… coccodrillo. 

In uno studio sulla copertura britannica dell’anniversario dell’invasione nel 2023, Catriona Pennell osserva che i mea culpa mediatici “sovvertono” in realtà la critica reale: gli stessi media che nel 2003 sostennero la guerra hanno potuto dichiararla un “errore” vent’anni dopo, decidendo cosi unilateralmente che “la questione poteva considerarsi chiusa”.

Ricostruire il caso 

E invece il dossier dell’invasione dell’Iraq — e della sua macchina mediatica — non può essere chiuso. È, e deve restare, uno dei casi di studio più evidenti di un micidiale cocktail tra istituzioni che selezionano informazioni d’intelligence eliminando dubbi e condizionali (pur naturali in qualsiasi studio d’intelligence condotto in aree informali e difficili da verificare) e media straordinariamente collusi con il potere politico. Il Center for Public Integrity statunitense ha documentato nel 2008 oltre 935 false dichiarazioni e più di un centinaio di affermazioni scorrette nei mesi precedenti l’attacco da parte dei vertici dell’amministrazione USA sulla presunta minaccia irachena.

Disumanizzazione 

Un altro lascito gravissimo dell’Iraq è stata la totale disumanizzazione delle irachene e degli iracheni. Il giornalista palestinese Daoud Kuttab, in un rapporto per la Croce Rossa del 2008, spiega come una buona parte della stampa araba contribuì anch’essa a questa disumanizzazione — mentre ha da sempre riservato maggiore empatia alle morti palestinesi. Kuttab paragona anche il trattamento statistico delle vittime irachene a quello delle vittime del Vietnam: se queste ultime erano considerate solo come numeri, non come persone, erano almeno contate.

“We don’t do body counts”, dichiarava nel 2003 il general Tommy Franks in Iraq, in quella che rappresenta una delle più estreme negazioni della responsabilità di un esercito moderno,secondo Ira Chernus, professore alla University of Colorado, tra i primi a chiedere la conta delle vittime irachene. Non solo gli iracheni sono stati privati della propria umanità, ma i soldati americani sono stati sollevati dal peso di riconoscere di aver ucciso esseri umani.

Perché non si può archiviare il caso Iraq? 

L’invasione dell’Iraq rappresenta un modello ed un paradosso: la maggior parte dell’intelligence internazionale contestava le presunte prove fornite dall’amministrazione Bush. E mentre la guerra mediatica infuriava, milioni di persone riempivano le piazze del mondo non perché avessero fonti d’intelligence superiori, ma perché erano convinte che colpire l’Iraq non avrebbe aiutato né gli iracheni né il mondo. Eppure, l’invasione non è stata fermata. 

Lo studio What News Made the News, di Hayes e Guardino, offre alcune risposte: analizzando ogni notizia serale sui canali televisivi americani ABC, CBS e NBC — 1.434 servizi tra agosto 2002 e marzo 2003 — gli autori mostrano che, mentre il dissenso interno era ridotto, le voci da altri Paesi (Iraq, Francia e altri attori globali che proponevano soluzioni diplomatiche) erano comunque presenti nella copertura mediatica americana, ma il pubblico attribuiva scarso credito alle fonti straniere.

Come imparare dall’Iraq oggi, nell’era della polarizzazione e delle fake news? 

La molteplicità delle fonti deve essere compresa come un’opportunità. Lo studio di Pennell sulla “catarsi” dei media britannici mostra che, vent’anni dopo, le voci irachene sono state finalmente integrate nel racconto mediatico. Questo è uno sforzo da continuare. Oggi social media e citizen journalism permettono di amplificare più facilmente le voci di chi vive i conflitti sulla propria pelle e di dare rilievo e autorità alle voci di chi subisce la guerra, non solo di chi la conduce. Sul campo, occorre riflettere in profondità sui limiti dell’embedded journalism, responsabile di tante distorsioni della verità. 

L’era di Donald Trump e la sua capacità sfrontata di disseminare fake news o immagini realizzate con l’IA rende questa attenzione sempre più urgente e costituisce un’opportunità per i media di non contare più ciecamente sulle fonti governative, come avvenne in Iraq. 

Infine, la lettura di prospettive molteplici non è più solo responsabilità dei media. La ricerca citata di Hayes e Guardino mostra che i media americani hanno in qualche modo dato voce alle posizioni antiguerra, ma queste non sono state riconosciute rilevanti dal pubblico americano perché straniere.

Educare il pubblico a dare peso a voci globali e alternative, riconoscere la propaganda di Stato — di qualsiasi Stato — è ora un compito dell’educazione ai media, sempre più necessario in un ecosistema informativo frammentato e iper-polarizzato. La costruzione della disinformazione che portò all’invasione dell’Iraq deve rimanere una ferita aperta, non solo per ricordare tutte le vittime inutili di quella guerra, ma anche per proteggerci da futuri tentativi simili.