La crisi del lavoro
A dicembre 2020, in Italia, l’Istat registrò la perdita di 101 mila posti di lavoro, di cui 99 mila riguardavano donne.
Gli effetti sproporzionati della pandemia sull’occupazione femminile sono stati definiti She-recession e, contrariamente alla narrazione dominante, non dipendono tanto dalla straordinarietà della crisi pandemica, quanto dalla condizione strutturale delle lavoratrici sul mercato del lavoro e dalla disuguaglianza nei carichi di cura nella sfera domestica.

Disuguaglianze pubbliche e private
Come nella maggior parte delle economie occidentali, in Italia la forza lavoro femminile è concentrata nei settori a basso valore aggiunto – come i servizi essenziali, tra i più colpiti dalla pandemia e composti per il 68% da donne – con remunerazioni non commisurate al livello di istruzione, contratti a termine (non coperti dal blocco dei licenziamenti durante la pandemia) e a tempo parziale.
Anche nei comparti ad alta partecipazione femminile come istruzione e sanità (72% della forza lavoro nel settore nel 2020), le lavoratrici sono soggette ad una segregazione verticale: il “tetto di cristallo” per cui solo il 33% dei ruoli dirigenziali è ricoperto da donne.
Le disuguaglianze sul lavoro riflettono quelle che persistono nelle mura domestiche. Già nel 2013 le donne dedicavano in media cinque ore al giorno alle attività domestiche e di cura contro una media di due ore per gli uomini.
Durante la pandemia, la chiusura delle scuole e la riduzione dei servizi ha comportato un aumento del carico assistenziale su madri e caregiver, riducendone il tempo dedicato al lavoro o spingendole a lasciare del tutto l’occupazione.
Questo squilibrio, unito al differenziale salariale che rende più “conveniente” per un nucleo familiare rinunciare allo stipendio femminile piuttosto che a quello maschile in caso di bisogno, si traduce in interruzioni di carriera, inquadramenti precari e alti tassi di inattività.
Nel 2025 il tasso di inattività femminile in Italia è pari al 42,3%, tra le giovani madri (25-34 anni) circa il 41% lavora part-time e una volta su due la causa indicata è la necessità di conciliare lavoro e famiglia.
La femminilizzazione del lavoro, nella doppia accezione di aumento della partecipazione delle donne alla forza lavoro e di diffusione di condizioni di lavoro atipico storicamente proprie solo dei gruppi marginali (donne, giovani e migranti), ha determinato – da una parte – una nuova domanda di cura che nei casi migliori ha trovato risposta in servizi pubblici ben finanziati e, nei casi peggiori, nell’espansione del mercato; e – dall’altra – ha ridotto la capacità delle famiglie di acquistare questi servizi, accentuando il deficit di cura.

Femminilizzazione del lavoro
La femminilizzazione del lavoro è quindi legata a doppio filo alla crisi della riproduzione sociale, in cui i bisogni aumentano mentre le risorse per soddisfarli diminuiscono.
Da qui si vede come le disuguaglianze di reddito diventino disuguaglianza di accesso alla cura: è una tendenza che, con livelli di intensità variabile, sta interessando tutta Europa, ma che resta un punto cieco culturale in cui non si riconoscono il sacrificio sotteso al lavoro di cura non retribuito né la sua funzione di collante socioeconomico.
Il lavoro domestico e di cura compensa le lacune del welfare nell’assistenza a persone non autosufficienti, sostiene la produttività sul posto di lavoro dei membri della famiglia contribuendo al loro equilibrio fisico e psicologico, e rappresenta il “cuscinetto” di compensazione per raggiungere una qualità di vita dignitosa a fronte di redditi insufficienti.
Un recente rapporto ILO stima che il valore economico generato dal lavoro di cura non retribuito corrisponde alla percentuale impressionante di circa il 26% del PIL nazionale.
Insomma, sfera domestica e lavorativa sono in rapporto reciproco e le disuguaglianze che ne derivano tendono a rafforzarsi: lo stesso si applica però ai circoli virtuosi di uguaglianza sostanziale nella casa e sul posto di lavoro attivabili da politiche mirate.
Sul piano del mercato del lavoro, è fondamentale l’introduzione di un salario minimo legale, per ridurre le sacche di povertà lavorativa dove le donne e i lavoratori marginalizzati sono sovrarappresentati; per rafforzarne l’autonomia economica, facilitando la fuoriuscita da relazioni familiari e sentimentali abusive, oltre a restituire dignità al lavoro e riequilibrare la disuguaglianza funzionale del reddito.
Altrettanto chiave sarebbe la riduzione della settimana lavorativa per una vera conciliazione vita-lavoro, oltre al congedo parentale paritario tra i due genitori, retribuito al 100% e non trasferibile, che insieme a servizi all’infanzia universalistici nella fascia 0-3 anni contribuirebbero a rendere la genitorialità una scelta libera ed entusiasmante.

Cosa possiamo imparare dagli altri
Vale la pena citare anche due esperienze internazionali di avanguardia. La prima è il Sistema Integrato Nazionale di Cura dell’Uruguay, istituito nel 2011, che coinvolge più Ministeri – tra cui quello della sanità, del lavoro e dell’istruzione – creando una struttura governativa che sovraintende e coordina gli interventi sul piano della regolamentazione del lavoro e dell’offerta pubblica di servizi.
Questa riforma ha ampliato drasticamente la rete dei servizi pubblici per la prima infanzia e i programmi di assistenza alla non autosufficienza, promosso clausole nei contratti collettivi per estendere congedi e flessibilità oraria, e rafforzato la professionalizzazione del lavoro di cura attraverso formazione e registri nazionali degli operatori.
La seconda è il Codice delle Famiglie di Cuba, che ci ricorda che si può e si deve agire anche sul piano culturale per la ridefinizione dei concetti di famiglia, genitorialità, violenza e disuguaglianza di genere.
Approvato con referendum popolare nel 2022, sostituisce la “patria potestà” con la “responsabilità parentale”, riconosce il diritto all’equa distribuzione del lavoro domestico e di cura tra tutti i membri della famiglia, afferma che la violenza familiare si esprime anche nelle disuguaglianze gerarchiche interne, riconosce forme di organizzazione familiare come la “parentela socio-affettiva”, sancita da un tribunale come unione tra persone legate da un rapporto stabile e duraturo nel tempo che può dare origine anche alla multigenitorialità.
Parlare di lavoro informale domestico e di cura significa parlare di qualità della vita: del diritto di scegliere quanto tempo dedicare ai propri cari, del diritto di scegliere tempi di lavoro retribuito in linea con le proprie aspirazioni, del diritto ad una parentalità espansiva delle esperienze di vita e non costrittiva, di dignità della persona “dalla culla alla tomba” sia per chi riceve sia per chi dà cura.
Tuttavia, con la crisi profonda in cui versa il modello sociale europeo – non solo in termini di privatizzazione di sanità e istruzione, ma anche del progetto complessivo di riarmo che sacrifica la transizione ecologica e una trasformazione sociale in senso progressivo – viene difficile immaginare un nuovo consenso capace di cogliere la centralità dei temi affrontati e agire di conseguenza.
