Le tasse invisibili della cura
Le donne sono strutturalmente più povere degli uomini perché – per una tradizione che ancora confondiamo con natura – a loro sono assegnate una lunga serie di attività non remunerate: la cura fisica ed emotiva dei bambini e degli anziani, la gestione della casa, la tessitura delle relazioni. Compiti che divorano tempo, sottraendolo al lavoro retribuito e perfino al riposo.
E che abbassano le quotazioni delle donne sul mercato del lavoro anche quando non hanno nessuno di cui prendersi cura e vengono penalizzate per il semplice fatto di essere caregiver in potenza: il divario retributivo tra le laureate oggi in Italia è del 16,6%.
Le donne sono strutturalmente più povere degli uomini perché spesso scelgono — o credono di scegliere — di lasciare il lavoro o di ridurlo, per poter assolvere meglio al mandato di cura. E questo le riporta, in vecchiaia, davanti a un assegno pensionistico più basso del 44% rispetto a quello di un uomo.
Le donne sono strutturalmente più povere degli uomini perché pagano un’infinità di tasse invisibili. Quella sulla bellezza, per esempio: o si immola una parte di stipendio a parrucchiere, estetista e diete, o si accetta di guadagnare meno, come accade alle donne meno curate. C’è poi la tassa sulla salute, dovuta alla maggiore difficoltà di diagnosticare le disfunzioni del corpo femminile – studiato infinitamente meno di quello maschile. E la tassa sulla sicurezza: i taxi presi per rientrare a casa sicure alla sera, invece di bus o metropolitane.
La gabbia della legittimazione: perché non ci ribelliamo
Potrei continuare all’infinito, ma vorrei portarvi altrove. Perché, pur consapevoli da sempre di questa povertà di genere, non ci ribelliamo a essa? Perché abbiamo finito per credere che questa disparità sia legittima. Ed è proprio questa convinzione, più della mancanza di denaro, la gabbia più difficile da spezzare.
Considerate che la prima testimonianza di divario retributivo risale ai Sumeri: tremila anni prima di Cristo un bracciante maschio guadagnava 60 sila al mese, una donna 30. È una ferita antichissima, che nasce a partire dal Neolitico, quando la rivoluzione agricola ridisegna ruoli e gerarchie e la donna perde progressivamente autonomia.
Il punto di massima povertà femminile arriva con la Rivoluzione industriale: l’uomo in fabbrica, nel nuovo tempio della produzione; la donna in casa, relegata alla riproduzione e alla manutenzione invisibile della forza lavoro.
La sua capacità di generare reddito, che prima si esercitava anche attraverso attività informali, scambi, lavori di prossimità, viene amputata.
Questa netta divisione dei ruoli è resa necessaria da un cambio di paradigma del lavoro, che diventa “avido” come lo definisce Claudia Goldin: un lavoro che richiede presenza totale, disponibilità continua, e che può esistere solo se qualcuno, a casa, sostiene tutto il resto.
Quella divaricazione dei ruoli non è stata un incidente storico, ma la soluzione più funzionale a un’economia che voleva massimizzare la produttività liberando il lavoratore da ogni altro compito.
I miti che ci hanno cucito addosso
La legittimazione della povertà femminile è passata attraverso una serie di miti: narrazioni collettive che hanno sempre cercato un ancoraggio biologico.
La minore forza fisica della donna veniva usata per dichiararla meno produttiva – nonostante la sua resistenza alla fatica dimostrasse il contrario.
La presunta inferiorità intellettiva — teorizzata da secoli di pensatori, con Aristotele in prima fila — la voleva incapace di amministrare patrimonio e denaro.
Oggi il primo mito è in dismissione – perché il lavoro non è più fisico.
Il secondo, invece, sopravvive in forme sottili: le donne si sentono ripetere in una infinità di modi che sono meno portate per la matematica, meno competenti nel gestire il denaro, più inclini a “spendere troppo”.
E a furia di sentirlo dire, finiscono col crederci, come dimostrano i test sull’alfabetizzazione finanziaria.
A partire dalla Rivoluzione industriale, il mito della differenza biologica si è poi arricchito di un’ulteriore sfumatura: la presunta vocazione naturale delle donne al lavoro di cura.
Un istinto iscritto nel loro Dna, l’“istinto materno”, che le renderebbe non solo più adatte, ma inevitabilmente attratte da queste attività.
Così tutto ciò che fanno nell’economia non remunerata — pilastro invisibile dell’economia monetaria — viene considerato amore, dedizione, inclinazione personale. Non valore economico. Al punto che il PIL non lo misura nemmeno.
Questa narrazione è stata così potente che, quando le donne hanno finalmente potuto entrare nel mercato del lavoro, non hanno abbandonato neppure un grammo delle attività che per secoli erano state presentate come la loro “vocazione”. Hanno aggiunto lavoro a lavoro, ruolo a ruolo.
Perché la loro identità sociale passava — e spesso ancora passa — attraverso l’adempimento di quei compiti. E così, nell’esatto momento in cui conquistavano autonomia, si condannavano alla povertà.
Le rivoluzioni domestiche
Più volte, davanti a platee di donne e uomini, ho raccontato la storia di alcune coppie che ho incontrato e che stanno provando a scrivere un copione diverso: coppie in cui la persona che svolge più lavoro di cura rispetto all’altra lo conteggia, e il corrispettivo economico viene detratto dalle spese comuni.
Una piccola rivoluzione domestica, certo, ma con quella carica eretica che appartiene solo ai gesti davvero sovversivi.
E ogni volta la platea si spacca.
Da un lato il brusio irritato, che sfocia puntuale nell’accusa di “materialismo”, come se mettere un prezzo al tempo femminile fosse un’offesa e non un atto di giustizia.
Dall’altro, volti che annuiscono quasi loro malgrado, come se quel riconoscimento — così semplice, così impensabile — desse improvvisamente un nome a qualcosa che avevano sempre sentito, ma mai osato formulare.
Uscirne davvero: riscrivere il mito
Oggi, il dubbio che questa povertà di genere non sia affatto legittima ha cominciato a serpeggiare. La consapevolezza è il primo passo del cambiamento, ma vedo un pericolo all’orizzonte: stiamo chiedendo alle donne di liberarsi da sole da una costrizione che è collettiva e sistemica.
Quando diciamo loro di imparare a negoziare lo stipendio, di chiedere aumenti, di “educarsi alla finanza”, stiamo trasformando una disparità strutturale in un compito individuale.
È una forma di vittimizzazione secondaria: finiamo per suggerire che, se le donne sono più povere, è perché non hanno saputo muoversi bene, non hanno chiesto abbastanza, non hanno studiato a sufficienza. E così creiamo un nuovo divario: tra chi avrà strumenti e sicurezza per provare a uscirne, e tutte le altre che non potranno farlo.
Non si esce dalla povertà di genere trattando un aumento o gestendo meglio il proprio denaro. Questi gesti possono aiutare una singola donna, ma non cambiano il sistema. Si esce solo riscrivendo il mito su cui abbiamo costruito la società.
Il punto non è far lavorare le donne “quanto” gli uomini, ma permettere agli uomini di prendersi cura quanto le donne. Legittimarli culturalmente, e soprattutto riorganizzare il lavoro in modo che questo sia possibile: un lavoro non più “avido”, ma capace di riconoscere la preziosità del tempo dedicato alle relazioni.
Solo allora il tempo della cura smetterà di essere una condanna economica femminile e tornerà a essere un tempo umano, condiviso, libero.