Chi siamo, ora?
Chi siamo oggi, dopo due anni di genocidio? Non tanto a guardarci dentro, anche se, è vero, quello sarebbe necessario. E ineludibile. Guardarci, finalmente, dentro uno specchio che ingrandisce con crudeltà ogni nostro profondo e irreversibile cambiamento. Ogni ruga, ogni piega sulla fronte, ogni notte insonne e giorno segnato dalla vista dell’indicibile. Là, oltre, là dove non si può andare e nessuno, tra i decisori, si è preso e si prende la briga di provarci – dannazione – ad andare.
Chi siamo, noi, a Gaza?
Noi che ci definiamo occidente, e chissà cosa vuol dire occidente, oggi, nel tempo del genocidio di cui siamo corresponsabili in ogni singolo dettaglio. Per inabilità politica e ignavia morale, anzitutto. Nei fatti, singoli e collettivi, siamo Giano bifronte, voltagabbana, ufficiale pagatore, neocoloniali, violenti, razzisti, baciapile, ipocriti. E poi: siamo in silenzio, indifferenti, continuiamo a viaggiare mangiare consumare sballarci sorridere fare piani di viaggi esotici prenotare traghetti e aerei lowcost cercare sconti far quadrare bilanci familiari portare figli a scuola accendere chat di classe mangiare consumare cercare sconti immaginare viaggi esotici.
La realtà e l’occidente che non vuole guardare
È così. Sì. E ci sentiamo così, chiusi dentro un mondo che percepiamo un ventre molle, una palude da cui, però, non riusciamo a uscire. Almeno con la testa e il collo, la bocca, le orecchie. Soprattutto, gli occhi.
È in questa palude che va in onda – proprio in onda, sulle frequenze radio e tv – lo scollamento tra i diversi occidenti di cui siamo parte.
Occidente è la politica – politica alta (?) e governi – che ha dimostrato di essere dentro una logica di acquiescenza, di abitudinaria gestione della politica internazionale, europea e mediterranea, che doveva rimanere nei paradigmi del “prima”. Prima del 7 ottobre 2023, immersa nell’ipocrisia di essere nell’Asia sud-occidentale (il vecchio, coloniale Medio Oriente) con la stessa logica perdurante dell’ultimo secolo. Protagonisti, per nulla spettatori, dello scompaginamento della regione: dall’invasione anglo-americana dell’Iraq e per tutti i due decenni successivi, quando abbiamo pensato di “ridisegnare” (sì, ancora una volta, come facciamo da oltre un secolo) una terra che abbiamo già disegnato a tavolino con confini artificiali e senza senso.
Sono proprio quegli stessi paradigmi che sono subito saltati dopo il 7 ottobre, dopo il dispiegarsi neanche tanto graduale del genocidio israeliano sul popolo palestinese, in primis a Gaza e poi in Cisgiordania. Ma noi, concentrati sulle nostre crisi continentali – noi europei più che occidentali -, abbiamo pensato che Gaza non fosse dirimente. Non chiedesse conto. Non ci presentasse, da subito, un conto non rinviabile, mettendo in gioco la nostra stessa vita di sistema.
Occidente è però, altrettanto, il nostro sconcerto, poi divenuto indignazione, voce, vita come politica, e infine partecipazione. Presenza nello spazio pubblico.
Inattesa, certo. Eccome, se inattesa. Eppure percepita come, anche e soprattutto questa presenza, ineludibile. Se i corpi palestinesi, a Gaza, sono irraggiungibili ma sempre presenti nelle nostre notti insonni. Se i loro corpi interrogano ogni nostro giorno, noi cosa facciamo? Siamo. Siamo i corpi nel nostro spazio, raggio di azione, luogo di parola. Nei modi più semplici. Parola che è ovunque, soprattutto. A casa, tra gli amici, nei bar, a scuola, nei parchi, nelle chat, su instagram, nella condivisione delle foto e nelle catene di sant’antonio su facebook.
Dalla parola al gesto: solidarietà con Gaza
Il momento di passaggio, dalla parola al gesto, è stato molto probabilmente attivato dalla fame esposta. Dall’affamamento imposto da Israele ai palestinesi di Gaza, fame e sete indotta e pianificata, fame e sete che non si ferma da mesi. È allora che la misura del nostro digerire Gaza è stata colma, finalmente. Ed è stato in quel momento che la parola, già presente da mesi come un sussurro diffuso, si è riempita di altro. Di gesti. Simbolici (sudari, campane, candele, presìdi, marce silenziose, crocicchi, cineforum, incontri). E poi… e poi gesti condivisi in uno spazio che fosse, necessariamente, fisico. In una progressione così veloce da lasciare senza fiato, ma senza sorpresa alcuna. Era nell’aria, già riempita da mesi di parole.
L’occidente dei senzapotere è nelle cento piazze del 22 settembre, primo giorno di sciopero per Gaza. Sì, ma non solo. È in tutti i margini di un’Italia che in questi anni e decenni non abbiamo mappato. Ed è da quei margini, inascoltati nella loro trasformazione, che è arrivata, silenziosa, la partecipazione compattata da ciò che era – è – ritenuto insopportabile. Alla vista e alla vita, al sistema di cui siamo, tutti, pilastri. Un genocidio può essere la ragione fondante di una partecipazione e poi ribellione e poi dissidenza che si pensava non più possibile. Ragione bastante, necessaria perché fondativa del nostro essere qui, oggi, una comunità.
La Sumud Flotilla ci ha portato a Gaza, con i nostri corpi. Ha rotto l’assedio, ci ha messe, messi in cammino. Ci ha messe, messi nel mondo, perché questo nostro occidente dei senzapotere è dentro il mondo dei senzapotere. Fuori dalle logiche che regolano quella fascia dei decisori che non decidono, gli acquiescenti, gli ignavi, i potenti senzaforza. E lo spazio pubblico, lo spazio riempito di politica dai senzapotere, è divenuto di terra e di mare, riunendo quello che in questa nostra epoca era stato diviso da chi ha scelto di trasformare il Mediterraneo nel cimitero dei migranti. Gaza, e la Sumud Flotilla, ci hanno rimesso in rotta.