In questi giorni, in occasione del centenario della nascita, riflettere su Zygmunt Bauman ha significato tornare a considerare la parabola complessiva della sua vita e della sua riflessione pubblica.
Propongo di considerare un segmento non meno significativo che caratterizza il suo percorso «ultimo».
Un mondo incerto
Nel novembre 2016 (meno di due mesi prima di morire) Zygmunt Bauman tiene una lezione sulla fine del mondo. Il tema su cui invita a riflette è l’incertezza che descrive come “la sensazione di non poter prevedere come sarà il mondo quando ci sveglieremo la mattina seguente” per concludere: “Il mondo ci coglie sempre di sorpresa, impreparati per il futuro” [p. 5].
È un’osservazione saliente che riprende dal libro che ha da poco ultimato – Retrotopia (Laterza) dove sostiene che futuro e passato si siano scambiati i ruoli. Il futuro ci spaventa, dice, perché lo percepiamo come una retrocessione, come perdita della possibilità di avanzamento, perché non siamo in grado di controllarlo. E comunque dal futuro riceviamo immagini che non ci piacciono, immagini di retrocessione. Per questo preferiamo rifugiarci nel passato.
Quella mossa tuttavia non è salvifica. “Il passato è immaginario quanto il futuro – scrive in L’ultima lezione (Laterza) – Non siete stati nel futuro e non lo conoscete, ma non siete stati nemmeno nel passato. Potete solo leggere libri sull’argomento, che però difficilmente possono restituire le sensazioni di una vita realmente vissuta nel passato” [p. 15]. E poche pagine dopo scrive: “Ricordare è interpretare il passato; o, più correttamente, raccontare una storia significa prendere posizione sul corso degli eventi passati” [pp. 42-43].
Bauman e l’idea di futuro
Sono cambiate molte cose in questi dieci anni senza Zygmunt Bauman. Restano vere, tuttavia, le sue parole ultime: la prima cosa da recuperare è un’idea di futuro. Per iniziare quel percorso conviene modificare il nostro agire.
La prima mossa non è cercare certezze. Investire sul futuro, scrollandosi di dosso un potere che ha paura forse potrebbe essere un’idea. È ancora Bauman che ci può essere utile.
Percorso possibile se ci prendiamo la briga di provare ad assumerci la responsabilità. È il significato della sua pubblica riflessione a Futura Festival, nell’agosto 2014. Il testo di quella conversazione è stato poi pubblicato con il titolo Scrivere il futuro (Castelvecchi).
Sono significative le considerazioni finali di quella conversazione [p. 43] quando riprende l’esortazione a liberarsi dall’illusione che il futuro si faccia da solo (il riferimento implicito di Bauman è a una lettera di Antonio Gramsci dal carcere al fratello Carlo il 12 settembre 1927).
Per assumersi quest’impegno occorre fare ricorso alla storia leggendola con occhio disincantato.
Che cosa sottintende Bauman? Non solo essere disposti a abbandonare una condizione di fatalismo, ma riscoprire una dimensione di investimento su una generazione dopo di noi.
Dietro, sullo sfondo, Bauman ha il sentore di una crisi che sta arrivando e su cui peraltro aveva invitato a riflettere all’inizio degli anni duemila. La questione riguarda cosa intendiamo con il termine «comunità».
Voglia di comunità
Quando nel 2001 esce Voglia di comunità (Laterza) l’Europa è alle soglie della sua nascita sostanziale. L’idea è che al di là dello Stato nazionale si stia formando una nuova realtà in grado di dare soddisfazione alle diseguaglianze. Bauman guarda con diffidenza a quel mito politico perché in quel patto che si presume fondi l’Europa intravede già gli elementi della crisi quale si presenta oggi.
Scrive Bauman in quel suo testo, per molti aspetti premonitore, che alla parola comunità è sempre associata una dimensione «buona» o «felice», comunque «calda» e «protettiva». In breve, positiva.
Subito dopo precisa come essa, però, abbia anche una dimensione soffocante, tra ciò che promette e ciò che pretende. Tra promessa (da vedere se poi mantenuta) e richiesta preliminare.
Tra «comunità dei nostri sogni» e «comunità realmente esistente».
“Una collettività – scrive all’inizio di quel testo – che pretende di essere la comunità incarnata, il sogno realizzato, e che in nome di tutto il bene che si presume possa dispensare esige una lealtà incondizionata e considera qualsiasi altro atteggiamento un imperdonabile atto di tradimento. La ‘comunità realmente esistente’, qualora ce ne trovassimo partecipi, reclamerebbe ubbidienza assoluta in cambio dei servizi erogati o che promette di erogare. Desideri la sicurezza? Cedi la tua libertà, o quanto meno buona parte di essa. Desideri tranquillità? Non fidarti di nessuno al di fuori della comunità. Desideri la reciproca comprensione? Non parlare con gli estranei e non usare lingue straniere. Desideri provare questa spiacevole sensazione di intimo ambiente familiare? Installa un allarme alla porta e un sistema di telecamere nel giardino. Desideri l’incolumità? Non far entrare gli estranei ed evita a tua volta comportamenti strani e pensieri bizzarri. Desideri calore? Non avvicinarti alle finestre e non osare mai aprirne una. Il problema è che se si segue questo consiglio e si tengono le finestre chiuse, l’aria all’interno diventa ben presto stantia e alla fine irrespirabile” [p. 6].
Come risolvere il problema della sicurezza?
La questione, dunque, è quella di risolvere il problema della sicurezza, una funzione intorno a cui — a differenza di quanto si pensava nel 1989 — sono tornati ad essere attuali i muri. Quei muri ora non rappresentano un residuo, ma si accreditano come garanzia di futuro: non più segno della vergogna o dell’offesa, ma della tutela. Per questo la loro abolizione non è più urgente. Anzi: ora ognuno rivendica il suo muro. È la conseguenza della società multiculturale anziché interculturale: una condizione che al massimo propone spazi per tutti, ma senza contaminarsi. Ciascuno “a casa sua”.
“Comunità”, dunque, acquista un significato anche per questo.
Perché, come scrive Bauman con grande premonizione già venticinque anni fa, “il problema è che la ricetta con cui vengono realizzate le ‘comunità realmente esistenti’ non fa altro che rendere ancor più acuta e difficile da sanare la dicotomia tra sicurezza e libertà” (pp. 6–7).
Quanto ci manca Bauman?
Molto.
Forse ancora di più ci manca qualcuno che sia in grado di replicare al linguaggio egemone di questo nostro tempo senza fare spallucce, ma prendendo seriamente in carica le sfide e i malesseri, provando a dare risposte coinvolgenti.