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La Babele di Bruxelles Confini, diseguaglianze, prospettive e marginalità in un’inchiesta inedita di Vincenzo Genovese realizzata in occasione di Ok Europe. Quattro strade per una cittadinanza europea dedicata a Bruxelles. Un’edizione speciale della nostra newsletter del sabato.
«Il francese mi serve solo dall’estetista», dice Magdalena, trentenne polacca che vive a Bruxelles dal 2015. Sorseggia un caffè a Place du Luxembourg, di fronte alla sede del Parlamento europeo. Come lei, nella capitale belga vivono 270mila cittadini di altri Paesi dell’Ue o del Regno Unito, il 22% del totale. Molti hanno la sua età. E questa piazza è uno dei loro punti di ritrovo preferiti.
Spesso lavorano nei palazzi delle istituzioni europee o nelle aziende collegate, in quella che nel gergo locale è chiamata Brussels Bubble o Eu Bubble. E che a volte sembra davvero una bolla separata dal resto della città, con locali ad hoc, assicurazioni e prestazioni mediche dedicate, palestre e persino giornali di riferimento. Tutti servizi offerti in inglese, lingua sufficiente per tutte le incombenze della vita quotidiana nella Bubble.
Magdalena è responsabile delle pubbliche relazioni di un’associazione di imprese. Con i colleghi parla inglese e fuori dal lavoro anche. «Non ho mai avuto nessun problema, al massimo qualche fastidioso documento amministrativo degli uffici comunali da tradurre», dice.
Francese e fiammingo, una variante dell’olandese, sono le lingue ufficiali della Regione di Bruxelles-Capitale, di fatto una grande area metropolitana composta da 19 comuni contigui. Tutti gli avvisi pubblici, le indicazioni stradali e le etichette dei supermercati sono bilingui, anche se in molti ignorano entrambe le versioni. «L’inglese è di fatto la terza lingua, anche perché francofoni e neerlandofoni già la utilizzano per comunicare tra loro», spiega la dottoressa Catherine Xhardez dell’Università di Bruxelles (Ulb), esperta di immigrazione e integrazione nella città. Dai suoi studi emerge tutta la particolarità di un luogo che di per sé non offre un’identità ben definita.
La Vallonia e le Fiandre, le altre due regioni in cui è suddiviso il Belgio, richiedono ai cittadini non europei che vi si trasferiscono di frequentare un «percorso di integrazione». A Bruxelles, però, le comunità etno-linguistiche sono due e ognuna ha sviluppato il suo percorso d’inserimento, in modo potenzialmente concorrenziale. Nel 2017 è stato trovato un faticoso accordo politico per un sistema «a scelta», che al momento non è ancora obbligatorio.
Il dualismo non riguarda solo l’offerta integrativa, ma tutta la dimensione culturale ed educativa della città, dalle scuole agli spettacoli teatrali, che inevitabilmente privilegiano uno o l’altro idioma. La complessità di questa situazione rischia, secondo la studiosa, di confondere i nuovi arrivati, che si troveranno inevitabilmente a «decidere da che parte stare». In tanti, alla fine, preferiscono puntare sull’inglese o in alcuni casi continuano a parlare in prevalenza la propria lingua d’origine. L’alto tasso di residenti stranieri consente agli immigrati più recenti di appoggiarsi su ampi network di connazionali, cosa che aiuta sicuramente a soddisfare le esigenze immediate, ma può avere conseguenze negative sul livello di coinvolgimento nella società.
«Bruxelles è la città più cosmopolita del mondo, ma non significa che sia un’isola felice di convivenza», afferma Marco Martiniello, direttore del Centro per gli Studi Etnici e le Migrazioni dell’Università di Liegi (Cedem).
Secondo gli ultimi dati dell’istituto nazionale di statistica, la regione bruxellese conta più di un terzo di residenti non autoctoni: oltre 432mila su un totale di un milione e 220mila abitanti. A questo 35,4% di passaporti stranieri si aggiunge un 39,5% di persone con almeno un genitore di un’altra nazionalità: i “belgi figli di belgi”, dunque, sono soltanto un quarto della popolazione complessiva a Bruxelles, mentre a livello nazionale rappresentano il 67,3%. Questa straordinaria multietnicità si dipana su uno spazio urbano molto frammentato, costellato di frontiere razziali e socio-economiche, secondo l’analisi di Martiniello.
Le diverse “anime” di Bruxelles si incrociano nel centro storico. Negli altri comuni, pur non omogenei dal punto di vista etnico e soggetti a continui mutamenti demografici, c’è spesso una comunità prevalente, come i marocchini a Molenbeek o i turchi a Schaerbeek. Esistono, poi, zone ricche e “bianche” e le due cose vanno sempre di pari passo. «Qui non ci sono immigrati, ma solo expat: europei, giapponesi o statunitensi», ironizza Martiniello, sottolineando la differente percezione generata dalle comunità straniere, in base a origine e potere d’acquisto.
Dimmi da dove vieni e ti dirò chi sei Così come nel resto del Paese, anche a Bruxelles la nazionalità di provenienza ha un peso non indifferente nel determinare l’esito dell’integrazione. Lo dimostrano dati come quello relativo al tasso di occupazione dei cittadini esteri, frutto di una recente indagine di StatBel: 72,6% per cento per gli europei; 45,7% per tutti gli altri. «Il Belgio non è certo il Sudafrica dell’apartheid, ma ci sono discriminazioni strutturali su base etnica in quasi tutte le sfere della società: alloggio, educazione, mercato del lavoro», spiega Martiniello.
Le difficoltà si moltiplicano quando ad affrontarle sono i cosiddetti sans-papiers, cittadini stranieri che non dispongono di un valido titolo di soggiorno per restare in Belgio. Secondo le stime, necessariamente poco accurate, sono tra gli 80 e i 150mila sul territorio nazionale. Ma l’etichetta generica di “migranti senza documenti” non rende giustizia alla complessità e alla diversità delle situazioni che comprende.
Tanti sono di passaggio, diretti nel Regno Unito. La polizia ne ha fermati 4.238 nel 2020 e più del doppio l’anno precedente, secondo i dati dell’Ufficio Immigrazione. Ma i numeri sono sicuramente più alti: il ministro dell’Interno francese Gérald Darmanin ha detto di recente che dal Belgio arriva la metà delle persone che provano ad attraversare illegalmente il canale della Manica. Eritrea, Algeria e Sudan fra i Paesi d’origine più comuni di coloro che vengono chiamati “migranti in transito”.
In alcuni casi, hanno intrapreso il loro viaggio per raggiungere l’Inghilterra, in altri hanno ricevuto risposta negativa alla richiesta d’asilo in un Paese dell’Ue. «A volte non fanno domanda in Belgio anche se avrebbero diritto alla protezione umanitaria, semplicemente perché nessuno glielo ha spiegato», racconta Katya Spallina, volontaria da anni nel settore.
La città di passaggio Katya Spallina ha cominciato distribuendo vestiti per strada e presto è passata a ospitare nel suo appartamento chi non aveva un posto dove dormire. «A un certo punto ho lasciato le chiavi all’associazione e c’era sempre qualche nuovo arrivo», dice. Non una situazione facile dal punto di vista emotivo, perché si tratta di ragazzi molto giovani, che spesso si fermano un paio di notti e poi tentano di imbarcarsi di nascosto. «Ogni giorno era un susseguirsi di “buona fortuna” e “mandami tue notizie”. Molti venivano respinti e tornavano a Bruxelles, ma ci riprovavano immediatamente».
Questa rete di accoglienza a casa propria è venuta meno con il tempo, ma rimangono molte abitazioni messe a disposizione gratuitamente da privati e diverse associazioni gestiscono centri di supporto in vari punti della città.
Uno dei più attivi è la Porte d’Ulysse, nel comune di Schaerbeek, dove gli stranieri senza fissa dimora possono alloggiare e i volontari preparano loro i pasti. Fuori dalla porta d’ingresso aspetta sorridente D., un cittadino etiope poco più che ventenne. Ha lasciato il suo Paese a 13 anni, a 15 ha attraversato il Mediterraneo su una barca per arrivare in Europa. Qualche giorno in Sicilia e una settimana in un centro di Milano, prima di ripartire verso la Germania, per raggiungere dei parenti. Ma dopo sei anni di lavoro, il suo permesso non è stato rinnovato.
Così il suo viaggio ricomincia: «Dopodomani andrò a Calais ed entrerò di notte nel vano di carico di un camion, mentre l’autista dorme o quando esce dalla cabina». Ci saranno controlli sia all’imbarco in Francia che allo sbarco nel porto inglese, ma spera di evitarli. Dice che di norma due persone su dieci riescono ad arrivare dall’altra parte e che alcuni suoi conoscenti hanno fatto decine di tentativi senza successo.
«Dagli agenti ti puoi nascondere, ma quando arrivano con i cani non c’è scampo. Alla fine, è solo una questione di fortuna». Mostra sul telefono la foto del figlio di tre anni e assicura che vale la pena correre il rischio di essere intercettati e rimandati indietro. «Nel Regno Unito potrò lavorare. Conto di chiedere asilo e prima o poi la mia famiglia mi raggiungerà».
Senza documenti Dall’altra parte della città, c’è chi Bruxelles non la lascerebbe mai. Nella chiesa di Saint Jean Baptiste au Béguinage, a pochi passi dalla piazza principale, un tappeto per la preghiera islamica è sistemato vicino all’altare. Qui i fedeli non vengono per la messa, ma per portare generi di conforto alle decine di persone accampate nel colonnato, accomunate dalla condizione di sans-papiers. Alcuni vivono in Belgio da anni lavorando in nero, altri hanno perso un impiego regolare, altri ancora hanno visto svanire il diritto al soggiorno per essersi recati momentaneamente nel Paese d’origine.
«È l’ultima carta che abbiamo da giocarci. Se ci fosse un altro modo di essere regolarizzati, non saremmo qui», spiega risoluto Tarik Chaoui, portavoce dell’Unione dei sans-papiers per la regolarizzazione (Uspr). La sua è una storia paradossale: nel 2013 è partito dal Marocco per raggiungere la madre, il fratello e la sorella, emigrati a Bruxelles due anni prima. Nel frattempo, però, in Belgio erano cambiate le politiche migratorie e lui, al contrario dei familiari, non ha mai ottenuto un permesso di soggiorno.
La scorsa estate, 470 persone senza documenti hanno intrapreso uno sciopero della fame, asserragliate in questa chiesa e nelle sedi di due università, per sollecitare il governo nazionale a concedere una sanatoria. Il caso ha acquisito grande rilevanza nel dibattito pubblico, perché i partiti di sinistra che sostengono la coalizione di governo in Belgio hanno minacciato la rottura in caso di morti. Tarik ha partecipato alle trattative con Sammy Mahdi, Segretario di Stato per l’asilo e la migrazione e figlio di un rifugiato iracheno. Dopo quasi due mesi, si è raggiunto un accordo per porre fine allo sciopero. Ma oggi il portavoce dell’Uspr se ne pente: «Ci dissero di inoltrare le singole domande, che avrebbero approvato i casi favorevoli. Ma tre quarti delle risposte ottenute finora sono negative». Chi si aspettava un atteggiamento più morbido da parte di un esponente politico discendente di immigrati è rimasto deluso.
Il problema è che la legislazione belga non stabilisce criteri chiari per la regolarizzazione di stranieri già presenti sul territorio. L’articolo 9bis della legge del 15 dicembre 1980 prevede «circostanze eccezionali» per autorizzare la residenza, ma delinea solo la procedura e non i parametri da seguire: in pratica l’Ufficio per gli Stranieri fa una valutazione caso per caso, basata sulle caratteristiche di ogni dossier. Conoscenza delle lingue, anni trascorsi nel Paese e livello di integrazione giocano a favore del richiedente. Eventuali carichi penali e condotte inappropriate, contro.
Secondo l’Uspr, è un sistema completamente arbitrario, visto che situazioni molto simili possono generare esiti opposti. Ma una proposta di legge per introdurre criteri definiti, sostenuta da un piccolo partito di opposizione, è stata di recente bocciata dal parlamento belga.
Tra leggi e slogan I veri ostacoli a un’apertura verso i residenti irregolari sono però l’architettura istituzionale del Belgio e il suo panorama politico. Il permesso di soggiorno viene infatti rilasciato dalle autorità federali, mentre quello di lavoro dalle autorità regionali. Senza il primo non si può ottenere il secondo, a parte una fattispecie (permis B) in cui però il richiedente deve trovarsi fuori dal territorio nazionale e le pratiche burocratiche spettano al datore di lavoro: un cortocircuito che impedisce ai sans-papiers di sanare la propria posizione a livello locale, dove probabilmente troverebbero più disponibilità.
«Se la migrazione fosse tema di competenza della regione di Bruxelles saremmo già stati regolarizzati. Ma in Belgio ci sono le Fiandre...», commenta amareggiato Tarik.
Le politiche migratorie vengono infatti gestite a livello nazionale e sono state un punto cruciale delle trattative che hanno portato alla formazione del governo di Alexander De Croo, nell’ottobre 2020. La coalizione di supporto al Primo ministro è ironicamente detta «Vivaldi», perché include il corrispondente politico delle quattro stagioni: conservatori, liberali, socialisti ed ecologisti.
Una simile alleanza è nata per escludere dall’esecutivo i primi due partiti del Parlamento per numero di voti: la Nuova Alleanza Fiamminga (Nva), espressione della destra nazionalista nelle Fiandre, e i separatisti dell’ultradestra di Vlaams Belang (Interesse Fiammingo), tanto radicali da essere soggetti all’embargo politico di tutte le altre componenti.
«La questione è centrale nella loro narrativa, che vede gli immigrati come un rischio per la sicurezza e un peso per le finanze dello Stato», afferma il sociologo Jean-Michel Lafleur. «Come accaduto anche in altri Paesi europei, questa strumentalizzazione del tema dell’immigrazione ha abbassato la qualità del dibattito, influenzando anche le altre forze politiche».
L’“effetto contagio” pesa molto nell’agenda dei partiti fiamminghi moderati: i conservatori di Cd&V (di cui fa parte il segretario all’asilo e alla migrazione) e i liberali di Open Vld vogliono mantenere una linea rigida sui migranti irregolari, per non prestare il fianco alla retorica sovranista e xenofoba.
Gli invisibili In questo modo, le persone senza documenti sono «vittime di un gioco politico e ideologico», secondo Cécile de Blic, che da volontaria coordina la protesta alla chiesa del Béguinage. A luglio è arrivata a Bruxelles dalla Bretagna e ha subito preso a cuore questa battaglia. «I sans-papiers sono gli schiavi moderni: persone che vivono sul territorio e possono essere sfruttate, perché non hanno diritti».
A causa del loro status, sono spesso costretti a lavorare in condizioni inadeguate, con paghe ridotte e turni massacranti nei sottoscala dei negozi alimentari o senza copertura sanitaria ai macchinari industriali. Senza permesso di soggiorno, non hanno la possibilità di affittare casa con contratto regolare o ricevere prestazioni mediche che non siano urgenti. Possono iscrivere a scuola i figli, che però perderanno il diritto allo studio al compimento dei 18 anni, puntualizza Cécile.
Per la volontaria, si tratta di «persone praticamente invisibili per lo Stato» e pur facendo parte da anni della società belga, restano ostaggio di una narrativa che li vede come corpi estranei. «Questo accade perché vengono dal Nordafrica o dal Medio Oriente. Io sono francese e nessuno a Bruxelles me l’ha mai fatto pesare».
Gli italiani nel mosaico Un approccio generalmente benevolo accompagna di solito anche la nutrita comunità italiana, ben integrata nel tessuto sociale secondo Raffaele Napolitano, presidente del Comitato degli Italiani all’Estero (Comites) di Bruxelles, Brabante e Fiandre. Ai 274mila residenti nel Paese in modo ufficiale, vanno aggiunti coloro che vivono in Belgio senza aver spostato la residenza: un flusso migratorio con radici antiche, composito e molto variegato.
«A Bruxelles arrivano oggi soprattutto studenti universitari, neo-laureati attratti dalle opportunità nelle istituzioni europee e giovani professionisti, che incontrano i discendenti degli immigrati del secolo scorso», racconta Napolitano. Rispetto a trent’anni fa, sostiene, è cambiata molto la disposizione geografica: al tempo c’erano quartieri interamente popolati da italiani, che oggi invece si sistemano in ordine sparso per la città.
Il livello di integrazione è tale che ci sono connazionali ad alti livelli in ogni settore: l’esempio più calzante è forse quello dell’esponente socialista Elio Di Rupo, figlio di lavoratori abruzzesi emigrati nel 1947 e Primo ministro del Belgio dal 2011 al 2014.
Anche l’immigrato di oggi, però, può sperare di diventare un “bon étranger” domani. «Ciò che si dice dei marocchini a Bruxelles, negli anni ’60 era riferito agli italiani», assicura Giuseppe Canta mentre impiatta in una coppa di cartone una porzione d’asporto di pasta al ragù. È nato a Bruxelles nel 1983 da mamma siciliana e papà pugliese: i suoi genitori sono arrivati da piccoli al seguito dei nonni, in un’ondata di italiani spesso destinati alle miniere di carbone della Vallonia.
Al suo chiosco pranzano i lavoratori della zona industriale di Evere, non distante dalla Commissione europea: sembrano apprezzare le specialità di “Pepe Pasta”, che ribadisce le sue origini anche nei colori del bancone. Ha imparato dalla nonna materna un italiano con forte inflessione dialettale e qualche termine desueto, ma in famiglia ormai parla solo francese. Selena e Tanina, le sue due figlie piccole, risulteranno “belghe di discendenza belga” nelle statistiche ufficiali. Dati, cifre e caselle in grado di fotografare, ma senza mettere a fuoco davvero, l’inafferrabile mosaico di culture di questa città.
Prossimo appuntamento Ok Europe \ Bruxelles 16 novembre 2021 | 18.30
Con
Credits Inchiesta di Vincenzo Genovese Supervisione editoriale
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