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Alla vigilia del percorso Ok Europe. Quattro strade per una cittadinanza europea, un'edizione speciale della nostra newsletter del sabato con un'inchiesta inedita a firma della giornalista Elena Ledda su Barcellona e la questione abitativa
“Questa è la nostra casa”: storie dalla crisi abitativa di Barcellona “Vedi questo, questo, questo e quello?”, chiede Mimi indicando una macchia nera di umidità sul muro, una finestra di legno spaccata e una porzione di pavimento sollevata. “Beh, mi piacerebbe aggiustarli perché, non importa quello che dice il proprietario, questa è la nostra casa: siamo noi che ce ne occupiamo, e vogliamo restare perché questo è il nostro quartiere, dove le persone mi conoscono e mi aiutano se ho bisogno”. Mimi Oset, 45 anni, nata e cresciuta nel quartiere Sants di Barcellona, è molto preoccupata per la sua salute. A causa di un grave problema alla vista e alle ginocchia, per cui le è stata ufficialmente riconosciuta un’invalidità dell’87%, spesso inciampa e cade. Ecco perché il suo cane guida, un Labrador color crema di nome Boira, non si allontana mai troppo da lei, e si innervosisce parecchio se qualcuno si frappone tra lei e Mimi, come accade più di una volta durante la nostra intervista, che si svolge in un umido e piovoso venerdì pomeriggio di inizio settembre 2021. Anche le due figlie di Mimi, Ingrid di nove anni e Marina di 23, hanno un regolare certificato di invalidità: al 42%, per deficit di attenzione/iperattività, (ADHD), disturbi dell’apprendimento e problemi di udito per quanto riguarda Ingrid; e al 36% per problemi di vista per Marina. A causa dei suoi problemi di salute, Mimi non può lavorare. Suo marito, Oriol, lavora come falegname e porta a casa circa 600 euro al mese, che insieme ai 356 euro di pensione di Mimi rappresentano tutto il reddito mensile dell’intero nucleo familiare.
La famiglia di Mimi è assistita dai servizi sociali e sta aspettando che le venga assegnato un alloggio di emergenza, di cui si occupano il consiglio comunale di Barcellona e il governo regionale della Catalogna (Generalitat). Al momento, ci sono 600 casi in lista di attesa.
Nel frattempo, Mimi, Oriol, Ingrid e Marina si aspettano il quarto avviso di sfratto dalla casa di tre piani in cui vivono, occupata ormai due anni fa. È accaduto quando Oriol ha iniziato a soffrire di depressione e ha perso il lavoro. Mentre lui e Mimi vedevano crescere sempre di più l’affitto, passato da 900 euro al mese nel 2014 a 1.400 nel 2019. È stato allora che hanno deciso di occupare la grande casa accanto che era vuota da anni, da quando il vecchio proprietario era morto.
Il nuovo proprietario, una società per azioni il cui amministratore gestisce anche altre società del settore immobiliare, ha chiesto al giudice di sfrattare la famiglia di Mimi. E il tribunale si è pronunciato a favore nonostante una moratoria sugli sfratti – stabilita nell'ambito delle misure urgenti sui contratti di locazione e sugli sfratti emesse dal governo spagnolo per tutelare le famiglie come quella di Mimi durante la pandemia – sia ancora in vigore (almeno fino al 31 ottobre).
Yes we can, but not alone Il caso di Mimi è la punta dell'iceberg di quella che per molti esperti è una grave crisi abitativa che caratterizza ormai Barcellona. “Parliamo di emergenza abitativa da più di dieci anni: è ovvio che siamo in una crisi profonda e non abbiamo le risorse per farvi fronte perché in Spagna l’accesso alla casa è stato determinato principalmente dal mercato, quindi mancano politiche abitative pubbliche”, spiega Guillem Domingo Utset, del dipartimento abitativo e urbano dell’Osservatorio DESC, una piattaforma di associazioni per i diritti umani con sede a Barcellona.
“In contesti con tante persone e interessi in gioco, come Barcellona e la sua area metropolitana, l’entità delle conseguenze della crisi aumenta notevolmente e rende molto difficile dare risposte. È uno tsunami”. Antonio Lopez Gay, professore al dipartimento di geografia dell’Università UAB ed esperto di demografia abitativa conferma: “Gli studi dimostrano che le persone a Barcellona stanno vivendo una grave situazione di precarietà abitativa”.
Lo sa bene il Comune di Barcellona. Ada Colau d’altronde è diventata nota in città, fino a occupare il posto di prima sindaca donna, sostenendo proprio il diritto alla casa delle persone che non solo si vedevano togliere l’alloggio, ma venivano anche multate perché non potevano pagare il mutuo all’indomani della crisi del 2008 e della bolla immobiliare spagnola. Quando Guanyem Barcelona, la piattaforma cittadina che lei guidava, è entrata per la prima volta negli uffici comunali (ora è un partito politico chiamato Barcelona en Comú), molti si aspettavano che potesse apportare un cambiamento significativo alle politiche abitative. “Il suo discorso iniziale era molto volontarista, ‘Yes, we can’, ma le politiche devono essere applicate nel loro contesto e Barcellona affronta una grande pressione immobiliare, che ha a che fare in parte con il turismo, ma anche con la polarizzazione del mercato del lavoro”, sottolinea Albert Recio, Professore del Dipartimento di Economia Applicata dell’Università UAB e vicepresidente della FAVB, la Federazione di Associazioni dei Quartieri di Barcellona. “Da una parte ci sono le persone con i soldi che lavorano per esempio nei settori tecnologici e a cui piace vivere qui; dall’altra i lavoratori interinali a basso reddito (turismo, commercio, settore dell’assistenza - dove le donne in condizioni di semischiavitù e prive di documenti si prendono cura degli anziani) che sono a corto di soldi a causa della pandemia”.
Carme Arcarazo, economista e politologa esperta di studi urbani e portavoce del Sindacato degli Inquilini di Barcellona (Sindicat de Llogateres) aggiunge: “È vero che l’amministrazione Colau è stata più ambiziosa rispetto a qualsiasi altra prima, ma le competenze di un comune sono limitate; è la Generalitat (il governo regionale) quella che ha competenza in materia di alloggi, e sta facendo poco o niente. Quindi è irreale far credere, come il consiglio comunale ha lasciato intendere, che il paradigma sarebbe cambiato una volta che fossero stati in carica”.
Affitti opachi Tradizionalmente, le politiche abitative in Spagna si sono concentrate soprattutto sulla promozione della proprietà. Il crollo dei prezzi delle case dopo la crisi del 2008, insieme all’impossibilità di una parte della popolazione di acquistare, a causa dell’inasprimento delle condizioni del credito, ha creato uno scenario favorevole a trasformare le case in affitto in un settore economicamente vantaggioso. Molte banche erano indebitate, perciò sono stati creati dei meccanismi specifici – come i fondi di investimento immobiliare, Socimi in spagnolo – affinché potessero acquistare case e, con appositi incentivi fiscali, metterle sul mercato degli affitti.
Un mercato sul quale è estremamente difficile avere informazioni precise. “Dato che le politiche abitative pubbliche non sono una priorità in Spagna, è logico che abbiamo un mercato opaco: non sappiamo quante case ci siano a Barcellona, non abbiamo un registro chiaro degli alloggi in locazione sociale, ecc.”, spiega Jordi Bosch, esperto di politiche abitative e direttore tecnico dell’Observatori Metropolità de l’Habitatge de Barcelona (Osservatorio Metropolitano per l'edilizia abitativa di Barcellona, un ente sovracomunale dipendente dal Comune, dalla Generalitat, dall’Area Metropolitana e dalla Diputació de Barcelona). Bosch, che concede questa intervista come esperto e non da direttore dell’Osservatorio, prosegue: “Le informazioni sull’evoluzione dei prezzi, ad esempio, emergono periodicamente perché surriscaldano il mercato; d’altra parte, avere una statistica minima sui pignoramenti costa parecchio e quella che abbiamo è molto limitata (ad esempio non include il profilo sociologico delle famiglie che lo hanno subito): la disinformazione è un altro riflesso del fatto che il diritto economico prevale sul diritto sociale”.
I pochi dati affidabili disponibili parlano da soli dell’impatto del mercato sulla vita delle persone: secondo l’Istituto Nazionale di Statistica, negli ultimi cinque anni i prezzi degli affitti a Barcellona sono aumentati 30 volte più dei salari. Inoltre, in base all’Encuesta Sociodemogràfica de Barcelona del 2017, il 38,2% delle famiglie della città vive in un’unità abitativa in affitto, ma la grande maggioranza (circa il 97%) affitta nel mercato privato. Gli alloggi sociali in affitto a Barcellona rappresentano solamente l’1,4% circa del patrimonio residenziale totale. In tutta la Spagna rappresentano tra l’1 e il 2%.
Per fare un confronto, in Italia rappresentano circa il 4%, in Francia il 17% e nei Paesi Bassi raggiungono il 30% del patrimonio totale. I dati dell’OCSE mostrano anche un elevato sovraccarico dei costi abitativi: il 76% delle famiglie a basso reddito che vive in affitto nel settore privato in Spagna spende il 40% o più del proprio reddito disponibile per i costi abitativi. “Non è che le persone vulnerabili non possano permettersi di pagare l’affitto, è vivere in affitto che rende le persone vulnerabili”, sottolinea Arcarazo.
Una stanza di ostello I dati mostrano anche come l’aumento dei prezzi delle case vada di pari passo con gli sfratti: secondo i dati forniti dal Consiglio Generale della Magistratura (CGPJ), più dell’80% degli sfratti a Barcellona tra il 2014 e il 2019 è stato causato dal mancato pagamento dell’affitto. È il caso di Olga Saguer, madre single di 53 anni di un ragazzo di 19 anni con Asperger. Proprio come Mimi e le sue figlie, Olga è in attesa del suo quarto sgombero, che dovrebbe avvenire alla fine di settembre 2021. “Qualche giorno prima della pandemia, ho perso il lavoro in una gelateria”, ricorda Olga seduta su un divano bianco dell’appartamento buio pieno di scatoloni in cui lei e suo figlio abitano, nella parte alta del quartiere di Sant Gervasi.
“Io non avevo altro reddito: mi sono depressa, avevo paura di finire in un Atm, ho passato un brutto momento e non ho trovato aiuto da nessuna parte: le istituzioni falliscono e i servizi sociali non ti danno una soluzione decente né reale. Invece, da quando ho scoperto il mio gruppo abitativo e i sindacati di quartiere mi sento meglio, perché so che non mi lasceranno sola. Non so cosa avrei fatto se non li avessi trovati”.
La soluzione “indecente e irreale” a cui si riferisce è una stanza in un ostello che il consiglio comunale ha offerto temporaneamente sia a Olga che a Mimi in caso di sgombero. “Come possono chiederci di vivere tutti in una stanza per mesi, con anche i problemi di salute che hanno le nostre famiglie?”, hanno commentato entrambe, rifiutando l’offerta e preferendo correre il rischio di uno sgombero.
Una legge ci vuole Il nervosismo di Olga aumenta man mano che i giorni si avvicinano al prossimo sgombero previsto. Le sue paure per il futuro sono sostenute da un recente studio intitolato “Rapporto sulla Prospettiva di Genere sul diritto alla casa e la povertà energetica a Barcellona”, secondo cui in Catalogna una donna su tre in una famiglia monoparentale come la sua è a rischio povertà. Secondo i dati della fondazione Arrels, il numero di persone che vivono per strada in città è aumentato del 77% tra il 2010 e il 2020.
Il gruppo di quartiere e i sindacati che per Olga sono la sua famiglia fanno parte di un movimento abitativo di Barcellona diversificato ma coordinato, organizzato a livello di quartiere, città e regione per aiutare le persone a esercitare il proprio diritto alla casa (dalla consulenza legale fino all'assistenza durante le trattative con i locatori). Un diritto teoricamente concesso dalla Costituzione spagnola, che all’articolo 47 recita: “Tutti gli spagnoli hanno il diritto di godere di una casa decente e adeguata. Le autorità pubbliche promuoveranno le condizioni necessarie e stabiliranno le norme pertinenti per rendere effettivo tale diritto, regolando l’uso del suolo secondo l’interesse generale in modo da prevenire speculazioni. La comunità parteciperà alle plusvalenze generate dall’azione urbana degli enti pubblici”. Carme Arcarazo precisa: “Anche se la Costituzione è abbastanza chiara, affrontiamo estorsioni ogni giorno”. L’organizzazione di cui è portavoce, il Sindacato degli Inquilini di Barcellona, è stata tra i promotori in Catalogna della prima regolamentazione dei prezzi di locazione in Spagna, la legge 11/2020. Il Partito Popolare di destra ha impugnato la norma e la Corte Costituzionale ha accolto il ricorso, che è ora in attesa di risoluzione. Nel frattempo la norma è stata applicata automaticamente per un anno in 61 città catalane.
Perché la regolamentazione dei prezzi sia attiva per altri cinque anni, le amministrazioni locali devono dichiarare la città o il paese “zona con un mercato immobiliare teso” e porre un limite all'aumento dei canoni di locazione. È ciò che il consiglio comunale di Barcellona ha fatto durante una sessione plenaria straordinaria che si è svolta il 15 settembre 2021, durante la quale ha anche stabilito una riduzione del 5% del prezzo massimo di locazione possibile.
Oltre al Sindacato degli Inquilini di Barcellona, un’altra organizzazione che promuove la regolamentazione dei prezzi degli affitti è stata la piattaforma PAH (Plataforma de Afectadas for la Hipoteca), di cui la sindaca Ada Colau è stata una delle fondatrici. Lucía Delgado, una delle portavoce, ha ben chiaro quale dovrebbe essere il prossimo passo: “Serve un parco di edilizia popolare in città: se invece di essere sfrattate, le famiglie potessero essere ricollocate come avviene in tante altre città europee, e se avessimo più leggi basate sui diritti, allora le persone non verrebbero sfrattate”.
Carme Arcarazo sembra un po’ più pessimista: “Non importa quanti decreti, anche a livello statale, vengono emessi: in questo Paese la magistratura finirà sempre per decidere in favore e tutelare la proprietà privata, come sta dimostrando la moratoria sugli sfratti”. Secondo Arcarazo, la principale risposta alla crisi abitativa finora l’ha data il movimento “che ha trasformato quella che era considerata una lotta individuale in un soggetto di azione collettiva”. E ciò che serve, dice, oltre alla regolamentazione dei prezzi, è che gli affitti si rinnovino automaticamente “e che i sindacati della casa possano avere diritti simili a quelli dei sindacati dei lavoratori (come il diritto di sciopero)”.
Qui non si passa Una delle prime azioni intraprese dall’amministrazione Colau è stata quella di sostenere le famiglie, come quelle di Mimi e Olga, a rischio sgombero. Nel 2016 ha creato un'unità antisgombero per seguirle, mediare e trovare soluzioni. Il team SIPHO (Servizio di intervento in situazioni di perdita di alloggio e/o occupazioni) era lì la mattina del 27 luglio 2021, quando un centinaio di persone chiamate dal Sindacato degli Inquilini di Barcellona si sono radunate per impedire con la loro presenza il terzo sgombero subito da Mimi. “Ci sono dei bambini per strada e a nessuno importa”, “La casa è un diritto e non un privilegio”, si leggeva sui manifesti che riempivano la porta di casa di Mimi mentre il Sindacato degli Inquilini, il gruppo abitativo del quartiere Sants e il team del consiglio comunale SIPHO negoziavano con le persone inviate dal giudice per eseguire lo sgombero. Hanno mostrato loro i documenti sullo stato di vulnerabilità della famiglia redatti dai servizi sociali, hanno ricordato la moratoria in vigore, hanno giocato tutte le carte affinché lo sgombero di Mimi non avvenisse.
Questa strategia di fermare gli sfratti è stata attuata per la prima volta dalla PAH e ora viene replicata anche dal resto del movimento abitativo. “Lo stesso SIPHO è in qualche modo una PAH trasformata in un meccanismo pubblico: il consiglio comunale deve essersi chiesto: come fa il movimento sociale a fermare gli sfratti? Facciamo qualcosa del genere, allora”, afferma Guillem Domingo Utset. “Eppure fermare uno sgombero va bene in quel momento, ma non risolve il problema perché non c’è un patrimonio pubblico di edilizia sociale. Vediamo cosa succederà al termine della moratoria. C’è una fila di sentenze e nessuna alternativa abitativa”, avverte Jaume Artigues, architetto e membro della commissione per la casa della FAVB, la Federazione di Associazioni dei Quartieri di Barcellona.
Soluzioni a metà “Il nostro obiettivo è essere felici vivendo insieme. Vogliamo vivere in una comunità [...] per tornare ai valori di solidarietà, sostegno reciproco e fiducia. Oltre ad avere spazi in comune, vogliamo avere interessi condivisi e imparare gli uni dagli altri. Vogliamo costruire una vita insieme, essere vicini”. Queste parole si possono leggere nella “dichiarazione d’intenti” di La Balma, una nuova cooperativa abitativa nel quartiere Poble Nou.
Le venti case popolari di cui si compone sono state costruite su un terreno pubblico che il consiglio comunale attraverso l’Istituto Municipale per l’Abitazione di Barcellona (IMHAB) ha trasferito a una cooperativa chiamata Sostre Cívic per 75 anni, estendibili. Questo modello, che sta crescendo in città, si basa sulla proprietà collettiva (né pubblica né privata) e sul “diritto d’uso” (né acquisto né affitto). I circa 45 abitanti hanno iniziato a trasferirvisi durante l’estate del 2021. La prima cosa che si nota entrando nell’edificio bianco dalle persiane rosse, subito dopo aver attraversato un parco giochi pubblico per bambini, è quello che diventerà il giardino e il parcheggio di biciclette della comunità, la cucina comune e la sala giochi dei bambini. “La convivenza è la cosa più importante che un progetto come questo può offrire”, ribadisce uno dei suoi abitanti, l’architetto Jordi Marfà Vives. Secondo Roser Casanovas, architetta della cooperativa di urbanistica femminista Col.lectiu Punt 6, la condivisione implica una frattura tra pubblico e privato che permette nuove dinamiche: “Generare spazi di condivisione e incontro, se c'è consapevolezza, facilita la creazione di spazi di corresponsabilità in termini di cura, potere, e utilizzo”. Le cooperative di housing e le altre iniziative citate promosse o sostenute dal consiglio comunale sono accolte con favore dalla maggior parte delle fonti consultate per questo rapporto. Così come un provvedimento, pionieristico in Spagna, che stabilisce che il 30% di tutte le nuove grandi costruzioni o ristrutturazioni in città devono essere destinate all’housing sociale. “Ciò che l’amministrazione di Colau ha implementato rappresenta l’inizio di una politica pubblica avanzata per quanto riguarda la promozione del diritto alla casa, sia in termini di innesco del cambiamento sia di promozione e supporto di modifiche legislative e politiche specifiche”, sottolinea Guillem Domingo Utset. “Il problema è che ci vuole tempo per vedere una vera trasformazione e sarà impossibile se anche i governi regionale e nazionale non agiranno nella stessa direzione”.
Sulla stessa linea interviene Lucía Martín González, Assessore alle Politiche Casa del governo locale di Barcellona. “Siamo l’amministrazione con meno competenze e budget e quella che in assoluto sta implementando la più ampia gamma di politiche abitative basate sui diritti”. Ma ci sono anche alcune critiche nei confronti dell’amministrazione. “In generale, il consiglio comunale reagisce alle nostre proposte mettendosi sulla difensiva”, afferma Jaume Artigues della Federazione di Associazioni dei Quartieri di Barcellona. Lucía Delgado della PAH sottolinea: “Il partito di maggioranza del consiglio comunale è nell’esecutivo statale e crediamo che dovrebbe avere un peso molto più forte all’interno del governo”.
Più case Una cosa su cui tutte le fonti consultate sono d’accordo è che la Generalitat dovrebbe svolgere un ruolo più importante nel garantire il diritto alla casa rispetto a quello che ha fatto finora. “Dovrebbero acquistare molte più case popolari di quanto non facciano”, riassume Jordi González Guzmán, ricercatore in economia politica nel mercato immobiliare e nei movimenti sociali che difendono il diritto alla casa.
I numeri sembrano supportare questi punti di vista: dal 2015 al 2019 il consiglio comunale ha costruito e completato 762 case popolari attraverso l’istituto municipale IMHAB mentre la Generalitat attraverso il suo istituto regionale Incasol solo 137. Chiedendo conto di queste cifre a Carles Sala i Roca, Segretario per l’Housing e l’Inclusione sociale della Generalitat, la risposta è che non conosce i numeri esatti, ma non è d’accordo con le critiche generali sul ruolo della Generalitat in queste questioni. “Forniamo un pacchetto molto importante di programmi per l’assistenza sociale di emergenza che non ha equivalenti in tutto lo Stato”, dice.
Tra le varie cose, cita una recente assegnazione di 20 milioni di euro per sostenere l’affitto sociale. Anche se poi ammette che sarebbero necessari maggiori finanziamenti e assicura che la Generalitat intende aumentare il proprio budget per soddisfare gli obiettivi previsti per questa legislatura: “Vorrei porre fine alla situazione di emergenza, che continua a essere la nostra priorità, e riequilibrare le politiche per consentire l’accesso ad alloggi a prezzi accessibili non solo ai più vulnerabili, ma anche ad altri gruppi sociali che hanno qualche difficoltà ad avere una casa, come i giovani o gli anziani. Ci servono più risorse dallo Stato e la Generalitat deve anche fare uno sforzo di bilancio nelle politiche di edilizia popolare: durante questa legislatura prevediamo di quadruplicare il nostro budget”.
Libertà Mimi, però, non se ne intende di bilanci della pubblica amministrazione. Tutto quello che sa è che vuole restare dove vive. E ha una proposta per le pubbliche amministrazioni: “Potrebbero usare i soldi che spenderebbero per la pensione per pagarci un affitto nel quartiere, oppure potrebbero parlare con il proprietario e raggiungere un accordo perché ci conceda il suo alloggio in affitto, magari con riscatto... Devono fare tutto il necessario affinché io possa restare qui con la certezza che né io né le mie figlie verremo cacciate”.
L’intervista è finita e io e Mimi siamo davanti alla sua porta per salutarci. Ha l’aria stanca e sognante mentre si appoggia alla porta di legno color nocciola e ricorda: “Nelle notti più calde d’estate io e le vicine portiamo le sedie qui fuori e chiacchieriamo, come in un paese. Sai dove lasciamo i nostri cellulari?”, chiede. “Qui”, risponde, toccando con un dito la maniglia della porta e sorridendo. “E quando torno dalla chemioterapia e sono troppo stanca per andare al parco con mia figlia Ingrid, le vicine si prendono cura di lei in modo che io possa riposare. Sai cosa significa per me? Libertà”.
Alla chiusura di quest'inchiesta, Olga Saguer e suo figlio sono stati sfrattati dal locale in cui abitavano da anni. Sette furgoni della polizia e una trentina di mossos d'esquadra (polizia catalana) in tenuta antisommossa sono arrivati alle 10.30 circa del mattino del 17 settembre per mandar via le quaranta persone che pacificamente, sedute a terra, provavano a bloccare l’ingresso della porta di casa di Olga. L'ultima scena che la giornalista, autrice di questa storia, ha potuto vedere erano due poliziotti che sollevavano da terra un ragazzo di circa vent'anni, che non opponeva loro nessuna resistenza, mentre un megafono avvisava delle sanzioni amministrative e penali per chi non fosse andato via spontaneamente. Solo una madre col suo figlio adolescente si sono alzati. Gli altri sono rimasti immobili a terra. Dopodiché la stampa presente è stata obbligata a uscire dal cordone della polizia, fuori dal quale non è più stato possibile vedere niente.
Credits Autrice inchiesta
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