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Fare sindacato in una società individualizzata e disintermediata


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Per lo speciale La classe operaia senza paradiso


Ostacoli alla rappresentanza sindacale

Nella società contemporanea il mondo della rappresentanza sindacale è costretto a muoversi su un terreno che non gli è più favorevole, principalmente a causa di due fenomeni, che possono e vanno distinti sul piano analitico ma che dal punto di vista pratico risultano strettamente intrecciati:

  • l’individualizzazione di massa, cioè il fatto che l’insieme delle relazioni sociali in cui si esprime la nostra esperienza quotidiana della società è sempre meno caratterizzato dal riferimento agli altri e sempre più caratterizzato dal riferimento esclusivo a se stessi, con una conseguente perdita della capacità di costruire relazioni sociali;
  • la disintermediazione, che è un fenomeno a sua volta dotato di due facce distinte: quella politica, inerente la perdita di ruolo dei soggetti della rappresentanza democratica e degli interessi organizzati (partiti, associazioni di categoria, sindacati, associazioni datoriali); e quella digitale, relativa alla capacità delle tecnologie digitali di rendere diretti e immediati, ovvero di modificare in maniera sostanziale, i rapporti e le relazioni fra soggetti diversi.

Individualizzazione di massa e disintermediazione (sia politica sia digitale) sono i fenomeni che più hanno contribuito a modificare le caratteristiche e la qualità delle relazioni sociali, così come le forme di organizzazione sociale del lavoro e della produzione di beni e servizi a scopi economici.

Uno straordinario paradosso

sindacati unioneDal punto di vista del sindacato, il principale effetto delle trasformazioni indotte dall’individualizzazione di massa e dalla disintermediazione è uno straordinario paradosso, e cioè il fatto che se, da un lato, il lavoratore è sempre più solo sul posto di lavoro, dall’altro il passo verso l’appartenenza sindacale – che potrebbe rappresentare una via di fuga da questa solitudine – non può considerarsi scontato.

Esso infatti non può più essere veicolato, come accadeva in passato, da un’ideologia o una cultura politica, grazie alla quale si determinavano le condizioni di possibilità di una coscienza della condizione lavorativa, presupposto indispensabile dell’azione sindacale. E così il lavoratore finisce col preferire la sua solitudine alla ricerca di un’affermazione collettiva.

L’età dell’oro della rappresentanza sindacale non esiste più

Oggi siamo costretti a vivere in una società in cui il lavoro è parcellizzato, frammentato, spesso disciplinato con contratti brevi che contribuiscono a renderlo precario. Una società dove la dimensione macrosociale, aggregata e collettiva del lavoro si è persa. Al punto tale da indurre a parlare di jobless society, cioè di una società in cui globalizzazione e rivoluzione digitale avrebbero reso meno necessario che in passato il contributo produttivo del lavoro. Con tutti i paradossi del caso, perché proprio nella jobless society si assiste a una moltiplicazione ab libitum delle forme di lavoro e dei contratti di lavoro finora senza precedenti.

Del resto, la società di oggi è una società in cui si combinano in modo inedito un deficit di lavoro nelle sue forme tradizionali, quelle che siamo più direttamente abituati ad osservare, e un surplus di lavoro secondo forme nuove. È il segno del cambiamento in atto. Di qui la frammentazione del mercato del lavoro e l’esplosione esponenziale delle forme di impiego.

Un fatto che nella prospettiva del sindacato costituisce chiaramente un problema. Perché al superamento delle solide identità collettive – sociali e politiche – sulle quali aveva poggiato la rappresentanza del mondo del lavoro del passato, si associa la disarticolazione del lavoro, rendendo così il ruolo del sindacato sempre più difficile da esercitare. Non è infatti facile rappresentare un mondo del lavoro in cui i lavoratori faticano a riconoscersi in una comune azione rivendicativa e le forme del lavoro sono una moltitudine, oltre che in continua trasformazione.

lavoratori sindacati

Solitudine del lavoro e rivoluzione digitale

Rispondere alla “solitudine del lavoro” (felice espressione che mi sento di usare ricordando come fosse un tema al centro della Conferenza programmatica dal quale prese il via il percorso verso il XVIII Congresso nazionale della CGIL) è dunque una sfida “radicale”, perché questa solitudine è prima di tutto “cognitiva”, si fa condizione umana, fino a diventare unico orizzonte di possibilità chiaramente percepito dalla persona in un mondo del lavoro estremamente frammentato e individualizzato. In questo senso, l’essere solo non viene compreso come una condizione superabile, ma come una situazione oggettiva.

La rivoluzione digitale che ha scatenato le più importanti trasformazioni sociali di questi anni ha inciso sulle caratteristiche e sulla qualità delle relazioni sociali, producendo un vero e proprio effetto moltiplicatore sull’individualizzazione di massa che già caratterizzava la natura della società post-industriale.

La disintermediazione, e il conseguente ridimensionamento del ruolo delle organizzazioni sindacali, non è quindi soltanto o principalmente il frutto di deliberate strategie politiche e di governo, ma è il portato inevitabile di una società che, grazie alla rivoluzione digitale e alla dilatazione di possibilità offerta dall’eccedenza di contatti che essa rende possibile, viene fatalmente attratta dalla solitudine digitale del peer-to-peer (che poi sono io e la rappresentazione che io offro di me stesso e degli altri attraverso il supporto digitale).

circuiti

Circuiti chiusi

Spesso la rete si alimenta di circuiti chiusi, in cui la condivisione è riservata ai simili e – di conseguenza – l’altro non è qualcuno che ha diritto di dire la sua, ma è un estraneo, una presenza che non mi riguarda o che mi è del tutto indifferente.

Alcuni aspetti della relazione mediata per via digitale favoriscono forme di identificazione segregata (dove prevale il polo dell’individuazione di se stessi rispetto a quello del riconoscimento dell’altro), che sono esattamente il contrario di ciò che caratterizza una identità capace di azione politica e sindacale (per la quale l’etero-riconoscimento, il riconoscimento dell’altro, e di come l’altro percepisce la mia presenza è indispensabile, altrimenti non negozio e non contratto, non esercito un’azione politica e di mediazione).

In questo senso, la ricostruzione della relazione con i lavoratori, che in passato era garantita dall’ideologia e dalla cultura politica, è il primo terreno di sfida che attende il sindacato.

Nell’esperienza di questi ultimi anni, la “relazione personale” sembra contare sempre più, sia per indurre una persona all’impegno sindacale sia nel ricostruire un rapporto fiduciario fra delegato e funzionario sindacale da una parte e lavoratore dall’altro.

Fare sindacato “nel quotidiano”

Per questo motivo, fare sindacato nella società individualizzata di massa e della disintermediazione significa anzitutto farlo “nel quotidiano”. Anche se ciò costa fatica, perché è impegnativo, perché richiede competenza – relazionale e di merito -, capacità di intervento, motivazione, determinazione.

Al tempo stesso, il rapporto fra tutela individuale e collettiva si fa più complicato … e nel mezzo, fra l’una e l’altra, vi è un problema di continuità dell’adesione sindacale: in alcuni ambiti lavorativi, soprattutto nei settori sulla frontiera della precarietà, l’adesione a intermittenza rischia di diventare la regola. E questo è un grave vulnus per l’azione sindacale, che obbliga a rimettere in discussione anche le nostre convinzioni sulla rilevanza dei servizi (offerti come beni selettivi ai propri associati) nella costruzione di una logica associativa.

Rilevanza dei servizi

Per anni abbiamo suggerito – come studiosi – che la via razionale all’adesione associativa, e quindi l’utilità rappresentata dai servizi, fosse la strada maestra (Mancur Olson docet!). Oggi ci rendiamo conto che l’offerta di servizi aveva in realtà una funzione accessoria, nel senso che risultava efficace nel momento in cui vi era comunque il riconoscimento – su un piano identitario – del valore dell’adesione sindacale in sé.

La crescita del potenziale di individuazione delle persone, e quindi della loro autonomia, crea le condizioni per rendere l’adesione sindacale non scontata. E in assenza di un’identificazione, la via fredda dei servizi non è sufficiente a supportare una scelta associativa stabile nel tempo. Poiché l’azione sindacale prevede la realizzazione di benefici differiti nel tempo, soltanto la presenza di un’identità stabile potrebbe di per sé permettere la realizzazione di un calcolo in cui i costi della mobilitazione di oggi possano confrontarsi con i benefici delle tutele di domani. Senza un’identità che faccia da punto di riferimento nel corso del tempo, quindi, nessuna persona sarebbe in grado di effettuare un calcolo simile.

Qui troviamo la ragione fondamentale del perché si debba tornare alla relazione, che è anzitutto una relazione personale e una relazione di fiducia.

L’unica via disponibile, in questo momento, per costruire una nuova forma di eteroriconoscimento, e in prospettiva di identità, fra il sindacato (nella persona del delegato e/o del funzionario sindacale) e il lavoratore. Occorre, in altri termini, re-imbastire i fili della rappresentanza del mondo del lavoro e questa opera di ricostruzione, che recupera i valori solidaristici e mutualistici delle origini del movimento sindacale, passa anzitutto attraverso la credibilità quotidiana del funzionario e – ancor più – del delegato sindacale sul luogo di lavoro.

Un impegno di prossimità e di cura, che deve puntare, prima ancora che sulla tutela individuale (che è la linea di frontiera da cui ripartire, per molti settori lavorativi), sulla individualizzazione del rapporto con il lavoratore che si vuole tutelare.

E qui si evidenzia un problema: come passare – o, meglio ritornare, se guardiamo al passato – dalla tutela individuale, quando non addirittura dalla tutela spot, che è alla base dell’attuale domanda sindacale dei lavoratori (quella per cui un sindacalista oggi viene inteso dal lavoratore come un consulente a richiesta, a basso costo, e quando possibile a massima resa), alla tutela collettiva, che è la vera base della rivendicazione sindacale.

Non abbiamo ancora una soluzione per questo problema, anche se sappiamo che in assenza di un’identità “politica” forte si tratta di costruire una reputazione, che si fonda proprio sulla fiducia che si instaura fra lavoratore, delegato e funzionario sindacale. Ed è una questione di continuità, costanza, presenza.

Insomma, si deve far comprendere al lavoratore che l’accompagnamento da parte del sindacato non risponde alla semplice soluzione di un problema contingente del singolo lavoratore ma alla necessità di dare una prospettiva retributiva e di carriera, e quindi una dignità, al lavoro. L’impresa non è facile, ma sembra proprio essere l’unica prospettiva percorribile, qui e ora.

La dimensione emotiva supera l’ideologia politica

Nella riconquista del lavoratore, conta anche la dimensione emotiva, a maggior ragione nel momento in cui l’ideologia, che per lungo tempo è stata la cornice naturale e tradizionale dell’agire sindacale, ha definitivamente perso la sua capacità di presa.

Il materialismo marxista che riconduceva alla sola dimensione economica la chiave di lettura del conflitto sociale e redistributivo ha fallito. Occorre rintracciare nuove chiavi di descrizione ed elaborazione del conflitto sociale, che non possono trascurare la dimensione emotiva della condizione lavorativa.

La “solitudine” del lavoro non è lo sfruttamento o l’alienazione della società industriale. È qualcosa di più insidioso e complicato da comprendere, da parte del sindacato, e da percepire, da parte del lavoratore.

E qui si affaccia un nuovo paradosso: il sindacato che non può più fare affidamento su un’identità politica forte, e che deve riscoprire una dimensione identitaria di natura funzionale, legata ai nuovi contenuti del lavoro e all’indispensabilità sociale del lavoro (perché nonostante tutto, ancora oggi, il lavoro assorbe larga parte del nostro tempo quotidiano, determinando la nostra condizione esistenziale anche nel momento in cui meno ne siamo convinti), si trova ad assumere un nuovo ruolo politico.

Politico, che non vuol dire ideologico, ma significa assumere un ruolo rispetto alla decisione pubblica, proprio nel momento in cui i referenti politici tradizionali (i partiti che si richiamavano alla tradizione del movimento operaio) vengono meno o sono attraversati dalle contraddizioni prodotte dalla crisi delle forme tradizionali della rappresentanza democratica.

Autonomia e fragilità politica

Sul piano politico l’orizzonte futuro del sindacato si contraddistingue per la co-presenza di una ricerca di autonomia e, al tempo stesso, di una condizione di fragilità, aspetti che si combinano in una nuova realtà della rappresentanza sindacale.

Una ricerca di autonomia perché, venuti meno gli interlocutori politici tradizionali del movimento sindacale e del mondo del lavoro, si va alla ricerca di un ruolo da esercitare in prima persona, per presa diretta, nell’agone politico. Una condizione di fragilità, perché se alla ricerca di tale ruolo non corrisponde una chiara presa di responsabilità, che occorre fare anche in chiave coraggiosa, il rischio è che l’azione sindacale sfoci nel radicalismo di una protesta fine a se stessa.

Gli orientamenti di voto dei delegati sindacali – per come sono stati rilevati in diverse recenti ricerche demoscopiche – parlano chiaro.

Al di là dei limiti evidenti di PD, LeU, Potere al popolo, e altre formazioni politiche di sinistra, ciascuna delle quali è stata in vario modo sanzionata dagli elettori in proporzione alla propria consistenza organizzativa e politica, le nuove soluzioni ora disponibili, dalla Lega per Salvini Premier al Movimento 5Stelle, e da ultimo Fratelli d’Italia, non sembrano essere sufficientemente rassicuranti, anche se non dobbiamo nasconderci che per diverse ragioni esercitano comunque un’attrattiva fra i delegati sindacali, a cominciare da quelli di CGIL.

E ciò si verifica nonostante lo stridente contrasto che le posizioni di questi partiti sperimentano con lo spirito ideale e con il sistema di valori che improntano tradizionalmente l’azione del movimento sindacale.

Pertanto, questa ricerca di autonomia, che nello spazio politico è conseguenza dell’aver perso i riferimenti tradizionali, a seguito anche delle trasformazioni intraprese dai partiti di sinistra e centro-sinistra, a loro volta in forte difficoltà nel definire la propria cultura politica e i propri referenti sociali, deve essere motivo di una rinnovata responsabilità, verso il mondo del lavoro così come verso il paese nel suo complesso.

Una società democratica non può fare a meno di un sindacato forte, ma un sindacato forte non può permettersi il lusso di non essere in sintonia con la società che cambia.

Non si deve commettere l’errore di guardare ai cambiamenti in atto cercando di sintetizzarne le tendenze con rappresentazioni che rischiano di essere caricaturali. Occorre viceversa essere consapevoli che i paradossi che contraddistinguono i cambiamenti in atto possono essere utili indizi per andare alla ricerca di nuove chiavi di lettura. Si tratta semplicemente di fare i conti con una realtà dalla quale non possiamo fuggire e che dobbiamo prima di tutto riconoscere, per potervi poi agire all’interno in maniera efficace.

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