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Cent’anni da Kronstadt: il tramonto dell’illusione rivoluzionaria e la grande rimozione


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Kronstadt è una pietra miliare. Il passaggio dall’Illusione rivoluzionaria a qualcos’altro. Kronstadt non fu un fatto isolato nella Russia bolscevica. Sin dal ’18 venne ripristinata la pena di morte e furono organizzati squadristi contro i contadini. Dal ’19, poi, toccò agli stessi operai. A quelli delle mitiche officine Putilov che solo due anni prima erano stati gli eroi del trionfo bolscevico. Eppure, 900 lavoratori arrestati perché scioperavano. 200 uccisi senza processo. E poi l’orrore di Astrakan. Ancora operai. Caricati su grandi chiatte, legati a pesanti pietre e annegati nel fiume.

Come è stato possibile? “C’è qualcosa di inspiegabile e perverso – ha scritto in proposito Marco Revelli nel suo Oltre il Novecento – nel passaggio rapido, in pochi giorni, del comunismo, dei comunisti dallo spirito critico all’autoritarismo”. In pochi giorni il dissenso diventa “tradimento, lo sciopero da arma sociale, reato, la delazione da spregevole infamia, virtù civile”. Così “il comunista diventa cekista, cioè spia”.

Con Stalin, poi verranno i Gulag. Ma qui non c’entra Stalin. Qui agiscono Lenin e Trockij. Certo ci sono le “circostanze esterne”. Ma non basta a spiegare. No. Qui c’è un “mistero soggettivo” da decifrare.  L’origine di tutto è forse nell’idea di Marx per cui il processo storico è strumento per la creazione dell’uomo libero.

La storia è in realtà una preistoria e l’uomo attuale, alienato, è strumento per la costruzione dell’uomo nuovo. L’uomo presente è infine un sottouomo, materiale da costruzione della società nuova. Sacro è il diagramma delle leggi scientifiche dello sviluppo.

Ma se in suo nome il Partito, lo Stato, sottraggono la casa a centinaia di milioni di individui, ogni altra proprietà, la stessa disponibilità del proprio corpo e impongono obbligatoriamente un certo lavoro e certi ritmi per certi fini determinati dallo Stato e dal Partito stessi, lì effettivamente cessa ogni dignità della persona, si spegne la sua umanità e il mondo intero può trasformarsi in uno sterminato, silenzioso, macabro gulag. Il gulag arriverà un po’ dopo. Ma non è un altro mondo rispetto alla società socialista. È un corso accelerato per ritardatari nella marcia verso il socialismo.

Non possiamo allora eludere la domanda: come è potuto avvenire? e perché una così lunga rimozione? La purificazione della memoria ci impone di soffermarci ancora su tali interrogativi.

Marco Revelli ha scavato nella “perversione” della coscienza del militante comunista e ha creduto di scovarla nel “dissolvimento della propria interiorità nell’esteriorità assoluta del processo storico”. Il processo storico è l’unica cosa che conta ed è esso che giustifica la violenza in vista del bene finale. Garante è il Partito. Detentore unico della verità come scienza esatta delle leggi della società e quindi supremo custode della virtù rivoluzionaria.

Ecco perché come scrive Koestler in Buio a mezzogiorno “non c’è nulla per cui si possa morire, se si muore senza essersi pentiti, senza essersi riconciliati col Partito e col movimento”. Ecco svelato il segreto degli imputati ai processi staliniani che quasi sempre ammetteranno colpe inesistenti. Più che per paura per desiderio di essere salvati. Scrive Revelli: “Il Partito, pur distruggendoli come singoli rimaneva, anche agli occhi degli oppositori interni, l’unico mezzo adeguato – in quanto potenza collettiva – a fare quella Storia che gli individui, assunti come singoli, non potevano che subire ma a cui avevano, comunque, votato tutti se stessi”.



A tale osservazione si lega ancora qualcos’altro. Prima o poi compare sempre l’argomento che quel che rende incomparabile il comunismo con i fascismi è che nel comunismo se i mezzi erano pessimi i fini erano grandi, universali, buoni. E le cose, a prima vista, stanno senz’altro così. Chi può comparare gli ideali chiusamente nazionalisti e il razzismo sterminatore del nazismo con l’universalismo comunista? Per non parlare dell’Olocausto. Nessuno. Il fatto, però, è che non ci si può fermare qui. Non ci si può fermare a contemplare la ‘tragica contraddizione’ tra ‘durezza’ dei mezzi e ‘universalità’ dei fini. Perché nel comunismo mezzi e fini si rovesciano: l’uomo reale diviene il mezzo e la dottrina del partito, coi suoi piani quinquennali, diviene il fine. L’uomo reale, nel comunismo, viene assolutamente strumentalizzato. In nome della libertà del genere umano i cui ritmi vengono decisi dal Partito. È questo lo specifico Male comunista.

Eppure, tale visione ideologica ha infiammato la coscienza di tanti uomini. Si diventava militanti e poi magari funzionari del Partito. Si rimaneva strumenti ma si compiva il passo decisivo verso l’unica via di libertà. Questa è l’illusione tenebrosa del comunismo. Perché così non si diventa autonomi e indipendenti ma, al contrario, assolutamente dipendenti.

Si spiega così, nota ancora Revelli, “la grande forza che sembrava emanare da quei militanti e insieme la loro disciplinata dipendenza. La potenza demiurgica che essi erano in grado di esprimere nei confronti della società circostante e al contempo la passività gregaria che spesso manifestavano nei confronti della disciplina di partito”. Così qualcosa comincia a chiarirsi.

Ma guardiamo ancora un po’ più a fondo. Scrive Francois Furet: “Il terrore è il governo della paura che Robespierre teorizza in governo della virtù. Se la Repubblica dei cittadini non è ancora fattibile è perché gli uomini traviati dalla storia che abbiamo alle spalle sono cattivi. Attraverso il Terrore e la Rivoluzione la storia creerà un uomo nuovo di zecca”. È il meccanismo della Rivoluzione francese che si applica anche a quella bolscevica. E che giustifica ogni ‘durezza’ con l’idea che la malvagità degli uomini non è ancora fino in fondo estirpata. Qui si completa il processo di esteriorizzazione che coincide con la piena sostituzione della morale con la “virtù”. Intesa come moralismo pubblico ossessivo. E si comprende la “necessità” di tale esteriorizzazione. Qui c’è qualcosa che richiama il pensiero di Girard sull’origine della violenza.

È chiaro, infatti, che infliggere il male crea un insopportabile conflitto interiore, morale. E allora questo conflitto, come dice la teoria psicoanalitica, lo si proietta fuori. Il criterio di Bene e Male è la luce della coscienza umana. Ma Bene e Male proiettati all’esterno portano a un irrealistico, paranoide irrigidimento che induce a suddividere tutti in buoni e cattivi, corrotti e virtuosi, borghesi e proletari. E naturalmente tale esteriorizzazione dà insieme sollievo alla coscienza, conferendole un senso di purezza. Porre il Bene fuori di noi comporta un prezzo. La nostra energia “buona” giunge a questo punto dall’esterno.

Da essa diveniamo sempre più dipendenti. Dipendiamo dalla luce dell’utopia, dell’ideologia. E da chi ne è depositario: il Partito. Ma ha un prezzo ancora maggiore la esteriorizzazione del Male. Tale movimento attenua ogni vaglio critico del giudizio morale e ci giustifica perché, qualunque azione compiamo, è contro i malvagi e in nome del Bene. Qui non c’è banalità del male ma diabolicità dell’innocenza. È questo l’esito della dialettica tra “universalità” dei fini e “durezza” dei mezzi del comunismo.



La nostra generazione non è stata complice dei crimini staliniani. Li ha però troppo a lungo nascosti alla propria coscienza o sottovalutati. È questo il campo di battaglia della nostra purificazione della memoria. Non avendo pensato a tutto ciò la sinistra postcomunista non è rinata, dopo l’89, attraverso una conversione, una rinascita di valori morali, quanto, piuttosto attraverso un’ulteriore de-moralizzazione che non attenua la dipendenza degli individui e la loro tendenza al gregarismo e che porta o al cinismo o a nuove fiammate utopistiche o fondamentaliste. All’esasperazione, oggi, dei Diritti e non della Responsabilità.

La strada da noi imboccata è stata quella della Grande rimozione. Della Grande amnesia. Non è qui la radice dell’attuale ipocrisia culturale? Oggi l’élite culturale della nostra generazione, pressoché al completo, si dichiara democratica e liberale. Una svolta in nome della libertà sarebbe stata bene accolta. Naturalmente. Ma qui non c’è ancora stata una svolta. Una rinascita. Una conversione delle menti e dei cuori nel nome della Libertà. C’è stato un adattamento liberista e libertino a un mondo apparentemente libero. Molto apparentemente. È come se l’estinguersi del conflitto ideologico al quale eravamo avvezzi, e nel quale avevamo proiettato ogni nostra coscienza morale attraverso il meccanismo di esteriorizzazione, ci avesse svuotato.

Privato di un orizzonte. Manca la dimensione interiore. Scriveva Ralph Dahrendorf molti anni fa: “l’uomo diretto dall’interno ha bisogno della democrazia come dell’apparato che gli consente l’espressione dei suoi interessi e valori. L’uomo diretto dall’esterno può vivere nella democrazia ma non ne ha bisogno. Egli ha bisogno della società, e finché la società gli dà l’orientamento e la sicurezza che egli non trova in sé stesso, il problema del carattere politico delle istituzioni in cui vive gli rimane relativamente indifferente”. Non ci dice ancora qualcosa questo testo? Sul nostro passato non elaborato e sul nostro presente così poco rassicurante sotto il segno del Covid?

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