Il 2 giugno 1946 le donne italiane si recarono alle urne e finalmente votarono.

È un passaggio storico fondamentale nel processo di ricostruzione dell’Italia, una conquista ottenuta a suon di battaglie femministe cominciate già nell’Ottocento, e consolidate con la partecipazione alla resistenza civile e alla lotta di liberazione.

Fino al 1945 il Parlamento italiano era stato luogo interdetto alle donne.

Le 21 elette all’Assemblea Costituente, chiamate anche madri costituenti, furono determinanti anche per le riforme dei decenni successivi. Il 2 giugno 1946 le donne si recarono alle urne in percentuali identiche a quelle degli uomini; la percentuale di votanti donne fu più alta rispetto ai votanti maschi nell’Italia meridionale e insulare. Alle elezioni amministrative furono elette più donne di quanto si potesse prevedere: circa 2000 consigliere comunali.

Il 2 giugno 1946 è la vittoria della Repubblica, indubbiamente. Ma anche, appunto, la prima volta delle donne in politica nella storia italiana. Ricordare l’inizio della significa ricordare un’acquisizione di cittadinanza. La metà della società italiana entra di diritto a far parte della politica e a essere parte della decisione pubblica. Quella del dopoguerra fu una conquista cruciale, a lungo inutilmente attesa e per la quale le donne si erano battute per decenni, inascoltate.

Da allora, il protagonismo femminile nella società italiana è cresciuto e l’inizio degli anni Settanta segna un decisivo scarto teorico sulla questione dei diritti civili per le donne. Sintomatiche ne sono le parole lapidarie di Carla Lonzi, pubblicate il 1970 sul manifesto del gruppo romano Rivolta Femminile.

“L’uomo non è il modello a cui adeguare il processo della scoperta di sé da parte della donna. La donna è l’altro rispetto all’uomo. L’uomo è l’altro rispetto alla donna. L’uguaglianza è un tentativo ideologico per asservire la donna a più alti livelli”.

Il movimento strappava violentemente l’illusione che l’uguaglianza formale delle donne – la loro inclusione a pieno diritto nell’ordine sociale esistente – potesse bastare a emanciparle concretamente. Al “semplice” riconoscimento di una piena cittadinanza femminile, il movimento opponeva il rifiuto più profondo di un intero modello dominante e la volontà di esprimere un “proprio senso dell’esistenza”.

La strada per le pari opportunità è una storia che ancora stiamo scrivendo.

Tornare al 2 giugno del 1946 è però fondamentale perché rappresenta uno snodo inevitabile a partire dal quale si crearono le condizioni affinché le donne potessero poi dire “no” e contare davvero, come fecero nel 1974 a difesa del divorzio o nel 1981 in occasione del referendum abrogativo della legge 194. La storia delle acquisizioni legislative che si dispiega per tappe lungo i decenni ’70-’80 formalmente trova lì la sua origine, nonostante le torsioni teoriche, la sfida rivolta al piano dell’istituzionale, la volontà di andare più a fondo nei meccanismi sotterranei del potere.


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