Siamo nel pieno di Tangentopoli: le inchieste sul sistema di corruzione che annoda politica e imprenditoria alimentano la percezione di un’intera classe politica distante, inadatta. È l’inizio della profonda crisi che sancirà la fine della Prima Repubblica.

Tra i quesiti: l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti, la soppressione del Ministero delle partecipazioni statali, l’abrogazione di norme della legge sulla droga e di parti della legge elettorale del Senato.

Ed è quest’ultimo punto che ci interessa indagare, perché se in quell’aprile gli italiani scelsero di abbandonare

il sistema proporzionale per virare verso un maggioritario, di impronta anglosassone, uninominale e a turno unico, lo fecero con l’obiettivo, in un’Italia instabile e lacerata, di riformare l’intero apparato politico, arginare la frammentazione partitica e assicurare la governabilità al Paese.

«Questa è veramente l’unica grande riforma che può dare al paese non solo la stabilità di cui ha bisogno, ma un modo diverso e più limpido di fare politica», scriveva Segni già in una lettera del 1987, in cui proponeva di dare vita a un movimento d’opinione che, scavalcando l’inerzia del mondo politico, preparasse l’Italia alle sfide del domani.

In questo senso, come osserva Daniela Saresella, «Tangentopoli rappresentò senz’altro uno tsunami nel sistema politico italiano, a cui si aggiunse il gravissimo squilibrio economico che emerse nei primi anni Novanta: ciò ha indotto Luciano Cafagna a definire questo periodo uno dei più difficili per il Paese, che cadde in una crisi di carattere morale, istituzionale e fiscale: si creò una “grande slavina” che trascinò con sé un ceto politico ormai delegittimato.»


Consulta la timeline


Di “politica sottratta ai cittadini” parla Paolo Flores d’Arcais, in un articolo pubblicato su “MicroMega” nel marzo del 1993: «La politica come mestiere, come trafficare, è oggi discreditata e delegittimata. La rappresentanza da reinventare non può non passare attraverso un radicale ridimensionamento della presenza dei politici di professione. Solo così, del resto, quando la quota preponderante dell’attività politica sarà restituita a persone che vengano dalla società civile e ad essa debbano ritornare».

L’esito di quel referendum – che registrò un’affluenza del 77% e la vittoria del sì per tutti e otto i quesiti – venne convertito nella legge elettorale conosciuta come Mattarellum, dal nome dell’attuale Presidente della Repubblica, relatore di quella legge di riforma. Il nuovo sistema era per tre quarti maggioritario, prevedeva cioè di assegnare il 75% dei seggi di Camera e Senato in collegi uninominali a turno unico; mentre il restante 25% veniva assegnato in maniera proporzionale fra i partiti che superavano la soglia di sbarramento del 4%, con liste bloccate, quindi senza la possibilità di esprimere preferenze.


Continua a leggere


Cosa è venuto dopo è storia nota. Il nuovo sistema avvantaggiava gli ampi accordi, e nel 1994, alle elezioni politiche, il Polo delle libertà e del Buon governo incassò il 42,84% dei voti. Si apriva così non solo il primo governo di Silvio Berlusconi, ma una nuova epoca della cultura politica italiana.

A trent’anni da quella data, possiamo concludere che si trattò di una ristrutturazione formale delle regole a cui è mancata la capacità di rigenerare in profondità la politica: l’instabilità ha continuato a essere una costante della storia repubblicana, l’insofferenza verso i partiti è lievitata, così pure l’apatia degli elettori, che in larga parte disertano il voto, allontanandosi da forme, riti, processi della democrazia partecipativa e finendo per concepire come luogo dove esprimere la propria posizione non le urne ma le piazze.

E per districare gli stessi nodi di allora, oggi la destra di governo ipotizza una revisione della Costituzione in senso presidenziale. Ma allora: bastano interventi di ingegneria costituzionale per riavvicinare politica e cittadini, istituzioni e volontà popolare? Se la politica ha bisogno di stabilità, può nondimeno fare a meno del pluralismo mettendo in ombra il ruolo delle minoranze o questa torsione verso il presidenzialismo rischia di produrre un ulteriore scollamento? Non sarà, invece, che il miglior antidoto alla disaffezione è una politica ben calata nei fermenti e nei tormenti della società?

Scopri gli approfondimenti