Il capitalismo di oggi manifesta la stessa tendenza a mortificare la dignità umana che destava l’indignazione di Marx nel XIX secolo. […] L’essere umano continua a essere trattato come uno strumento fungibile, da usare fino a quando serve, altrimenti da sostituire. La precarietà – che alle nuove generazioni viene indicata come un’opportunità da sfruttare, coltivando la flessibilità e la disponibilità a piegarsi come delle virtù – era per Marx ciò che impedisce agli esseri umani di sviluppare liberamente le proprie potenzialità
(Da “Come leggere Karl Marx?” di Mario Ricciardi)
Nel 1974, a 89 anni, Ernst Bloch in un intervista disse che Karl Marx non ha mai pensato di costruire un credo. La sua, come quella di Rosa Luxemburg, è stata una rivolta di carattere morale «contro il proprio privato interesse». In quella rivolta morale c’era la voglia di capire di più, di «non accontentarsi». E questo vale soprattutto, dice Bloch, nei momenti duri della sconfitta.
La prima battaglia culturale consiste nel mettere a nudo le falsità della propria e della collettiva «confort zone».
La sfida per capire il presente è essere radicali, ricominciando daccapo, soprattutto quando la realtà dei fatti dimostra la fallacia o la crisi della propria impalcatura politica, della propria strategia di ragionamento e di lotta. In breve, delle proprie consolidate convinzioni.
Anche per questo ci piace riprendere alcuni scritti inquieti di Marx e proporli in quest’anniversario, a 140 anni dalla morte.
Così è per la traccia dell’inchiesta operaia, che vuol dire indagare la realtà com’è oltre gli schemi o le semplificazioni. Principio a cui Marx è legato fin da giovane quando, in uno dei suoi primi testi (Per la critica della filosofia del diritto di Hegel, del 1843), scrive che «essere radicali significa cogliere le cose alla radice. Ma la radice, per l’uomo, è l’uomo stesso».
Al centro di quelle parole non sta il gusto della contestazione, ma soprattutto un’idea pervasiva e profondamente “materiale” di giustizia, non legata a un principio astratto, ma al tentativo di rispondere alle contraddizioni irriducibili tra ricchezza e miseria.
È il tema al centro del saggio giovanile sui furti di legna. Come scrive Adriano Zambon, significa cogliere che le “disuguaglianze economiche continuano, allora così come oggi, a costituire un grave problema delle nostre società“: divari a cui spesso si reagisce con “l’indifferenza e la crudeltà verso gli ultimi”. Un atteggiamento individualista che invece Marx rifiuta mostrando, dice ancora Zambon, “grande empatia, che lo spinge a non rassegnarsi all’accettazione dell’esistente, ma a lottare a favore dei più svantaggiati”.
Una ricerca ostinata di giustizia che lo spinge anche riconsiderare i propri assunti quando nel 1871, dopo l’esperienza della Comune, si tratta di porre il problema dei prìncipi su cui fondare un programma e una proposta di governo, come aveva intuito molti anni fa Georges Haupt, un grande storico che ci ha lasciato troppo presto.
È importante per noi riprendere questo laboratorio, anche per trarre spunti utili alle riflessioni sulle sfide di questo nostro tempo.
A lungo nel corso del Novecento rileggere Marx, o immergersi in alcuni testi a lungo inediti che emergevano tra le sue carte – Grundrisse, i Manoscritti economico-filosofici, i saggi di carattere etnologico, le letture sulle economie precapitalistiche L’ideologia tedesca –, ha voluto dire costruire una visione ortodossa o ideologica del suo laboratorio, oppure riformulare una nuova ortodossia sbarazzandosi della vulgata e, come scrive Tony Judt, “liberarsi del pesante e sudicio fardello della sinistra tradizionale”.
L’esito spesso ha dato luogo tanto a una nuova volgarizzazione come a una nuova ortodossia. Questo è anche il percorso che sembra caratterizzare la marcia trionfale del testo di maggiore successo, il Manifesto del partito comunista, uno dei long-seller più stabili dell’ultimo secolo e mezzo.
Il nostro invito vuole essere diverso. Per questo è utile riconsiderare le domande con cui periodicamente Salvatore Veca è tornato nel tempo a interrogare il laboratorio inquieto (non il pasto precotto e surgelato delle soluzioni) che sta nella turbolenza culturale di Marx, uno che prima di tutto nella propria vita si è soprattutto preoccupato «di non essere marxista» come giustamente e opportunamente Salvatore Veca gli fa ripetere nell’”intervista impossibile”.
Una formula, quella dell’intervista impossibile, da cui abbiamo imparato non a rovesciare la realtà, ma il nostro senso comune, e così avviare una pratica di conoscenza che si serve dei classici, non trascura i riferimenti, ma poi pensa che capire il presente, anche con l’aiuto dei classici – perché tutti noi rimaniamo sempre «nani sulle spalle di giganti» – significa «piegarsi sul presente e sforzarsi di leggerlo».
Come scrive Mario Ricciardi, Marx è convinto che la realtà sia essenzialmente dinamica, materiale e concreta, quindi diffida dei modelli statici, dei discorsi normativi, delle astrazioni che separano forma e contenuto. Nel corso della sua vita ha scritto tantissimo, non tutto quello che ha scritto era inteso per la pubblicazione, e anche le sue opere più importanti hanno un carattere in qualche modo provvisorio. Alla sua morte stava ancora riflettendo, rivedendo, studiando, in vista dell’elaborazione finale di un affresco che è rimasto incompiuto. Dopo di lui, compagni e seguaci hanno cercato di costruire una dottrina utilizzando i materiali del cantiere che aveva inaugurato quaranta anni prima a Berlino, senza riuscire a chiuderlo.
L’ultima raccomandazione è quella non leggere Marx come il profeta che ha enunciato i dogmi di una religione. Le sue opere sono piene di false partenze e nuovi inizi, di affermazioni criticabili e di argomenti che non stanno in piedi, se non grazie a notevoli sforzi interpretativi, e talvolta neppure in quel caso. Mescolati con invettive, battute fulminanti o di cattivo gusto. Ma al fondo, e al netto dei suoi limiti, c’è una passione bruciante per una libertà che sia pienamente umana, che si esprima attraverso relazioni non strumentali tra le persone.